Donne perseguitate, violate, stuprate, costrette ad abbandonare la propria casa e la propria terra per il solo fatto di essere Rohingya. Accade in Rakhine – uno degli Stati più poveri del Myanmar (ex Birmania) – dove lo stupro è utilizzato dai militari birmani come strumento di “pulizia etnica”.
I Rohingya – minoranza musulmana in un Paese buddista – subiscono ormai da decenni una violenta oppressione. Fino al 1982, costituivano la più grande comunità apolide del globo poiché veniva loro negata la cittadinanza birmana. Tuttora, considerati “bengalesi” privi di un qualsivoglia legame culturale, religioso e sociale con il Myanmar, patiscono l’intolleranza religiosa di estremisti e gruppi buddisti ultranazionalisti.
La campagna di persecuzione nei loro confronti si è però inasprita a partire dall’agosto 2017, quando le autorità birmane hanno lanciato la cosiddetta “clearance operation” in risposta agli attacchi dei militanti dell’Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army).
L’operazione contro i presunti “terroristi bengali” ha determinato una catastrofica crisi umanitaria – definita dal Segretario Generale ONU António Guterres “una delle peggiori al mondo” – che ha portato oltre 700.000 Rohingya a riversarsi nel vicino Bangladesh per sfuggire all’efferata violenza dell’esercito di Naypyidaw.
La missione esplorativa dell’ONU sul Myanmar, nel report pubblicato lo scorso 18 settembre, rileva l’esistenza di prove evidenti di genocidio e crimini contro l’umanità. “I vertici militari del Tatmadaw birmano in particolare il comandante in capo Min Aung Hlaing e cinque generali – si legge nel report – dovrebbero essere processati per aver orchestrato i gravi crimini perpetrati su vasta scala“contro i Rohingya. Crimini come omicidi, esecuzione extragiudiziali, sparizioni forzate, torture e violenze sessuali anche sui bambini.
All’interno di questo contesto gli stupri delle donne Rohingya – come già delle donne bosniache nell’exJugoslavia e di quelle tutsi in Ruanda – rappresentano un mezzo attraverso cui realizzare l’eliminazione, non necessariamente fisica, di una minoranza sgradita.
Nel caso del Myanmar, precisa il Segretario Generale ONU, “l’uso diffuso della violenza sessuale è funzionale al piano militare birmano” per costringere i Rohinya “a fuggire dalla propria patria e a non farvi mai più ritorno“.
Lo “stupro etnico“, inoltre, non è mai compiuto per vendetta nei confronti dell’avversario. Ma ha lo scopo – come evidenziato dalla giurisprudenza del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia – di minare la capacità riproduttiva della comunità nemica e di incidere sulla sua composizione etnica futura.
Secondo Radhika Coomaraswamy – membro della suddetta missione ONU – in Myanmar “la portata, la brutalità e la natura sistematica dello stupro e della violenza indicano una statuita strategia tesa ad intimidire, terrorizzare o punire la popolazione civile“. È evidente, aggiunge, che “stupro, stupro di gruppo, schiavitù sessuale, nudità forzata e mutilazioni sono usati come vera e propria tattica di guerra“.
Le testimonianze delle sopravvissute, raccolte nei campi profughi di Cox’s Bazar (Bangladesh) dalle organizzazioni internazionali e dalle ONG, raccontano di atrocità inaudite, di corpi profanati in modo barbaro, di sofferenze fisiche e umiliazioni psicologiche.
Rabia Abdul (nome di fantasia) incinta quando si sono svolti i fatti, riferisce a Human Rights Watch di essere stata stuprata da quattro soldati. “Sono svenuta durante il quarto stupro – dice – quando mi sono svegliata ero in un lago di sangue. Qualche ora dopo ho partorito un bambino che è morto subito dopo“.
Nel report “Rape by Command“, l’agenzia di stampa Rohingya Kaland Press parla anche di campi militari dove giovani donne, sospettate di legami con l’ARSA, vengono trattenute forzatamente e sottoposte a crudeli stupri di gruppo.
In alcuni casi, gli stupri sono perpetrati in pubblico di fronte ad altre donne, ai familiari o ai figli delle vittime. Questi ultimi, in diverse circostanze – come riporta il “Flash Report” del Consiglio ONU per i diritti Umani – nel vano tentativo di difendere le proprie madri sono stati uccisi dai soldati.
Il trauma della violenza sessuale determina, peraltro, devastanti effetti psicologici a lungo termine. Sempre nel Flash Report ONU, si legge: “molte donne sono ancora oggi visibilmente traumatizzate, piangono e mostrano uno stato di costante ansia e paura“.
“Sono sempre nervosa e angosciata – dice una 25enne proveniente dal villaggio di Nga Sar Kyu- ogni rumore mi fa sussultare. Ho timore anche ad andare in bagno da sola“. “Faccio counseling una volta a settimana”, racconta una 32enne stuprata al quinto mese di gravidanza, “non riesco più a dormire. Sono depressa (…). Mio marito mi sta vicino. Ma è troppo dura“.
Gli stupri commessi ai danni delle donne Rohingya hanno un ulteriore risvolto, che definire raccapricciante risulta eufemistico. Gli abusi sessuali spesso, infatti, generano nuove vite. A maggio scorso, esattamente nove mesi dopo l’inizio dell’ondata di violenza in Rakhine, nei campi profughi bengalesi si è assistito a boom di nascite di bambini Rohingya.
“È difficile stabilire con certezza quanti sono i bambini concepiti dagli stupri“, afferma Pramila Patten(Rappresentante speciale del segretario generale contro le violenze sessuali nelle nei conflitti), precisando che “lo stigma di una gravidanza in simili circostanze rende difficile uscire allo scoperto“. Infatti, prosegue la Patten “ci sono molte segnalazioni riguardanti giovani donne che nascondono la propria gravidanza e pertanto non cercano cure mediche“.
Oltre al trauma della violenza subita e di una gravidanza non desiderata, le vittime devono affrontare la stigmatizzazione, la vergogna e l’emarginazione della propria comunità lottando con problemi di identità e appartenenza.
Dal canto suo, il Governo del Myanmar nega ogni addebito mosso dalla comunità internazionale rispetto ai gravi crimini commessi dall’esercito birmano contro i Rohingya, compresa la violenza sessuale sulle donne.
Il 29 agosto scorso, il portavoce del Governo Zaw Htay – riferendosi alle conclusioni presentate dai membri della missione esplorativa ONU – ha annunciato l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente per rispondere alle “false accuse delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali“.
Zaw Htay ha sottolineato che il Myanmar ha una politica di “tolleranza zero per le violazioni dei diritti umani“, evidenziando la necessità di “prove solide, testimonianze e date certe per poter intraprendere azioni legali nei confronti di chiunque” abbia commesso abusi.
La consigliera di Stato Daw Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace, glissa sull’argomento.
Eppure, in una video intervista del 2011 prima della sua ascesa al potere, dichiarava: “nel mio Paese, lo stupro è usato come arma contro chi vuole vivere in pace e affermare i propri diritti umani fondamentali. È usato come arma dalle forze armate per intimidire i gruppi etnici“.
La ricerca della verità e della giustizia per le donne Rohingya è al momento una chimera. Sarà difficile vedere i loro carnefici processati o addirittura condannati per le violenze fatte.
“La brutalità e la crudeltà delle violenze sessuali commesse dal Tatmadaw“, sempre secondo il report della missione esplorativa ONU, “riflettono una diffusa cultura della tolleranza, se non una politica esplicita, verso l’umiliazione e la deliberata inflizione della sofferenza sui civili” al punto da “rafforzare la fiducia dei soldati del Tatmadaw circa l’assoluta impunità di cui godranno per tali violazioni“.
La missione esplorativa ONU ha per questo chiesto al Consiglio di Sicurezza di deferire l’”affaire Rohingya” alla Corte Penale Internazionale (CPI), tenuto conto che il Myanmar non ne riconosce la giurisdizione.
Il Consiglio di Sicurezza è però bloccato dal veto di Cina e Russia, che invocano un approccio paziente e diplomatico per risolvere la crisi. In realtà, sono più preoccupate di tutelare i loro interessi economici nel Paese.
Con una decisione sorprendente la procuratrice gambiana della CPI, Fatou Bensouda, ha ritenuto di avviare comunque un’indagine preliminare, partendo dal presupposto che i presunti crimini contro i Rohingya sono iniziati in Myanmar e proseguiti in Bangladesh, che è invece Stato parte allo Statuto di Roma.
Indagare sul quel che accade nel Rakhine non è affatto semplice neppure per i giornalisti birmani. Il Myanmar è infatti tra i dieci Paesi più repressivi del mondo nei confronti della stampa.
Non a caso, il 3 settembre una corte birmana ha condannato a 7 anni di carcere i giornalisti Wa Lone e Kyaw Soe Oo con l’accusa di aver violato la legge sul segreto di stato. I due reporter di Reuters avevano denunciato la repressione dei Rohingya in Rakhine.
Per Tirana Hassan, direttrice di Amnesty International per le risposte alle crisi, Wa Lone e Kyaw Soe Oo sono stati puniti “per aver osato fare domande scomode sulle atrocità perpetrate dai militari birmani“. La sentenza inoltre “rappresenta un monito rivolto a tutti i giornalisti circa le possibili conseguenze per chiunque decida di indagare sugli abusi delle forze armate“.