Per difendere la Costituzione il Movimento 5 Stelle salì perfino sul tetto della Camera dei Deputati. Durante la campagna referendaria contro la riforma Renzi-Boschi un indiscutibile feeling legava i Grillini al ‘popolo della Costituzione’: un rapporto che si è tradotto almeno in parte anche in un voto (nonostante i tanti dubbi sull’assenza di democrazia interna, sull’assenza di un dissenso articolato e riconoscibile).
Ebbene, oggi quel rapporto è in piena crisi: se non definitivamente incrinato, certo in veloce logoramento. Una parte rilevante del ‘popolo della Costituzione’ inizia a pensare che tra il Movimento e la Carta ci sia un rapporto simile a quello tra la Sinistra e la giustizia sociale: una bandiera per quando si è all’opposizione, un intralcio da cui liberarsi non appena si arriva al governo. Non è, d’altra parte, un caso: il costituzionalismo moderno è leggibile come la costruzione della difesa dei cittadini dal potere dei governi. Le costituzioni legano, intralciano, impongono pesi e mettono argini: tutte cose che servono proprio a limitare l’arbitrio di chi è sopra, a beneficio di chi è sotto. Ed è evidente che tutto guida l’azione di governo del Movimento tranne che la bussola dei valori costituzionali.
Sia chiaro: non c’è, almeno per ora, un attacco formale alla Costituzione. A differenza di quelle partorite da Berlusconi e da Renzi, le riforme costituzionali proposte dal ministro Fraccaro, comunque le si valutino nel merito, sono formalmente rispettose dell’articolo 138 e ispirate alle buone pratiche suggerite in questi anni dai costituzionalisti. Ed è questo, sia detto per inciso, il motivo per cui la «Zagrebelsky e associati» (come la definisce quasi quotidianamente il «Foglio») non è in armi contro questo governo, o almeno non sul fronte costituzionale. La tesi del «Foglio» è che dopo aver urlato ‘al lupo’ contro chi lupo non era (Berlusconi e Renzi), ora i ‘professoroni’ tacciono contro i veri lupi della Costituzione (i 5 Stelle). Una tesi nutrita di evidente malafede: perché da una parte c’erano stravolgimenti formali approvati dalle Camere, qua si parla di dichiarazioni, di stile, di silenzi.
C’è tuttavia una punta di verità in questa caricatura tendenziosa, che però ribalterei nei seguenti termini: la stessa malattia che ha colpito i berlusconiani e i renziani sembra ora attaccarsi ai grillini. Se quelli avevano la febbre a 40, qua si comincia a registrare un 37,5 da non trascurare. È una conclusione che sembra fatta apposta per fare imbestialire tutte le tifoserie, ma sembra purtroppo la più vicina alla verità: e cioè che i grillini non sono troppo alieni, ma troppo normali. E la normalità culturale di questo momento storico, in realtà la normalità di gran parte della storia politica dell’Italia unita, è un netto antiparlamentarismo, nutrito di diffidenza verso la democrazia rappresentativa; è la retorica della democrazia diretta; è la passione per la prevalenza dell’esecutivo sul legislativo; è l’attrazione per la disintermediazione. Era questa la cifra delle riforme berlusconiane e renziane: e questa sta diventando anche la cifra dei 5 Stelle di governo.
L’antiparlamentarismo militante è il tratto più evidente della retorica di Di Maio e compagni. L’identificazione del Parlamento con la ‘casta’ (la battaglia esasperata sui vitalizi), l’annunciata riduzione dei parlamentari (contraddittoria con gli ideali di di democrazia diretta, visto che allenta e annacqua ancora il nesso rappresentante-rappresentati) e soprattutto la dichiarata volontà di andare verso il vincolo di mandato dimostrano il disamore verso l’impianto parlamentare, che è il cuore procedurale della nostra Costituzione. E anche la prospettiva di un referendum propositivo senza quorum sembra del tutto indifferente agli equilibri della democrazia: davvero siamo pronti a farci imporre le leggi da una minoranza agguerrita?
Se queste sono le riforme annunciate, c’è poi la prassi del governo del cambiamento: che non cambia un accidenti, perché si nutre di decretazione d’urgenza esattamente come per i governi precedenti. Un esempio scandaloso: il Decreto Sicurezza, che limita in modo gravissimo le libertà e le garanzie costituzionali (nonostante l’incredibile firma di Mattarella, presidente assai più sensibile alle regole di bilancio che non ai diritti umani) e che è passato come necessario e urgente senza essere né l’uno né l’altro.
Aggiungiamo il (pessimo) folklore: le uscite di Casaleggio sulla futura inutilità dei parlamenti e di Grillo sui poteri costituzionali del Capo dello Stato: parole in libertà, ma parole che guarda caso vanno nella stessa direzione degli altri segnali citati. Ancora: la totale disintermediazione che porta a fare il Def senza confrontarsi con le parti sociali, nel miglior stile renziano. Le intemerate di Di Maio contro i giornali: che fanno capire che il vicepresidente del Consiglio, nel migliore dei casi, non ha capito quali sono i limiti anche verbali dell’esecutivo in una democrazia moderna.
E poi c’è la sostanza… Continua su libertaegiustizia