di Giuseppe Baldessarro
Il porto è sempre stata cosa loro. Da quando si è iniziato a parlarne, a metà anni ’70, i moli di Gioia Tauro sono sempre stati considerati un affare dei clan della piana.
Un affare da condividere e mettere a disposizione delle cosche amiche. La storia del porto della ‘ndrangheta è intrecciata come fosse un’unica cosa con la storia criminale dei Piromalli, dei Molè, dei Bellocco, dei Pesce, degli Alvaro, che l’anno eletto a cortile di casa per i traffici di droga e di armi, ma anche per le assunzioni, per gli appalti dei servizi interni ed esterni. Solo per dare un numero secondo una relazione del 2006, gli investigatori stimano che l’80% della cocaina in Europa arrivasse dalla Colombia via Gioia Tauro.
La Commissione parlamentare antimafia del 2008 ha concluso che la ‘ndrangheta controllava o influenzava “gran parte dell’attività economica intorno al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale”.
La storia prima, e le inchieste successivamente, scoprirono che, oltre ad avere un ruolo nella copra vendita dei terreni e negli appalti per la sua realizzazione il clan Piromalli, guidato dal patriarca “don Mommo” aveva condizionato la gestione del nuovo terminal container fin da subito.
Il porto a metà degli anni ’90, era il più grande terminale del bacino del Mediterraneo dove, nel 1998, si spostano più di 2 milioni di container. Dal 1994, quando Contship Italia affittò l’area portuale per avviare l’attività di trasbordo, arrivarono soldi veri con la creazione del Medcenter Container Terminal, grazie a 138 miliardi di lire del finanziamento statale. I Piromalli non stettero a guardare e obbligarono la società attraverso il suo presidente Enrico Ravano, a pagare un dollaro e mezzo per ogni container trasbordato.
Tangenti ma non solo. Con la complicità di pezzi dello stato il porto in breve tempo è diventato uno dei porti di approdo della cocaina che la ‘ndrangheta ha sempre distribuito in mezza Europa. Grazie alla complicità di doganieri, addetti allo scarico, gruisti, comandanti e marinai, sulle banchine del porto sono stati scaricati e trasbordate tonnellate di droga proveniente dal Sud America.
La più nota operazione condotta dalle forze dell’ordine italiane risale al 2004, nome in codice “Decollo”, quando i carabinieri del Ros scoprirono che dentro un carico di marmi pregiati i clan erano riusciti a far arrivare a Gioia Tauro migliaia di chili di cocaina purissima. Un trend che non è cambiato nel tempo. Così nascosti in container di legna, frutta esotica, e pesce surgelato ancora oggi continuano a transita quantità di stupefacente impressionanti. Nel 2016 sono stati scoperti e sequestrati 932 chili cocaina. Un quantitativo importante di merce “perduta” che non ha però scoraggiato i broker dei clan. Tanto è vero che l’anno successivo, tra agosto e la fine del 2017, i sequestri sono arrivati a “pesare” 2 tonnellate.
Le cosche sembrano insomma inarrestabili, e il tutto sotto gli occhi di sistemi di sicurezza all’avanguardia e gestiti da diverse autorità. Dalla Dogana, alla Polizia, dagli specialisti alla Guardia Di Finanza al Container Security Initiative, degli Stati Uniti che prevede, dal 2001 controlli speciali eseguiti direttamente da personale americano. Tutto inutile, tutto inefficace forse perché come dicono gli stessi boss della piana loro “Sono il passato, il presente e il futuro” di quella zona.