di Graziella Di Mambro
Questa è la storia di una resa dello Stato davanti alla ragion politica. Sono passati dieci anni e Fondi è ancora l’unico caso in Italia in cui un Consiglio comunale ritenuto condizionato dalla mafia non è stato sciolto e commissariato come prevede la legge, come per due volte era stato chiesto dal Ministro dell’Interno (all’epoca il leghista Roberto Maroni) e come aveva proposto il Prefetto in carica a Latina, Bruno Frattasi, ritenendo che ci fossero “forme di ingerenza da parte della criminalità organizzata tali da compromettere il buon andamento dell’amministrazione, con grave e perdurante pregiudizio per lo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica”.
Tutto questo non fu sufficiente in quei 13 mesi plumbei intercorsi tra il deposito della relazione del Prefetto, a settembre 2008, e ottobre 2009, quando alla vigilia del Consiglio dei Ministri che avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di scioglimento, l’intero Consiglio comunale si dimise, evitando così un lungo commissariamento e azzerando tutto il lavoro di indagine amministrativa fatto dalla Prefettura.
Un colpo da maestro suggerito la sera prima dal senatore di Forza Italia, Claudio Fazzone, l’anima potente che guidò, probabilmente, la lunga trattativa politica per “salvare” la sua città dall’onta di un provvedimento così grave come lo scioglimento del Consiglio per condizionamento mafioso.
Operazione riuscita ma che, per i dieci anni a seguire, ha avuto l’effetto non previsto di trasformare quella che poteva essere soltanto l’ennesima storia di presenza mafiosa su un territorio nel simbolo della debolezza dello Stato di diritto davanti alla politica che conta su consensi bulgari. E così è andata a Fondi. Dove, in realtà ad essere condizionato dalla criminalità organizzata non era solo il Comune ma anche il Mof, la struttura di vendita all’ingrosso dei prodotti ortofrutticoli ufficialmente di proprietà della Regione Lazio (che detiene la maggioranza delle azioni) e gli operatori privati. Se, infatti, la relazione del Prefetto Frattasi fu destinata a restare inascoltata e inapplicata nei sui effetti amministrativi, la parallela (e indipendente) inchiesta penale sul caso Fondi è finita con una raffica di condanne nel celebre processo Damasco, che, soprattutto, nel corso del dibattimento, ha fatto emergere le numerose connivenze tra il livello politico-burocratico e il gruppo facente riferimento ai fratelli Giovanni e Venanzio Tripodo.
Quest’ultimo in particolare aveva interessi fortissimi sul Mof, al punto che in una telefonata ammessa agli atti del processo è proprio Venanzio Tripodo a intimare all’amministratore di Mof spa, Giuseppe Addessi (tuttora in carica con lo stesso ruolo): “Al Mof entra chi dico io”. Fu la Commissione d’accesso a ricostruire nel dettaglio i legami tra i fratelli originari della Calabria e esponenti politici del Comune: “…appaiono altamente significative le connessioni emerse chiaramente in sede di accesso tra la famiglia Tripodo e i soggetti legati per via parentale anche a figure di vertice del Comune di Fondi, nonché a titolari di attività commerciali pienamente inserite nel Mof”. D’altro canto erano già accertati i collegamenti “della famiglia Tripodo con elementi della mafia calabrese e clan camorristici, in particolare quello dei casalesi”.
La catena dei rapporti era questa: Venanzio Antonino Tripodo (fratello di Giovanni Carmelo) era in strettissimi rapporti con Franco Peppe, titolare di stand al Mof, il quale, essendone il cugino, era in stretti rapporti con il sindaco in carica, Luigi Parisella (Forza Italia), nonché con Aldo Trani che aveva diretti rapporti con soggetti di elevata caratura criminale” e aveva beneficiato di un comportamento accondiscendente del Comune di Fondi. L’intreccio era evidente ed era noto in città assai prima che, a febbraio 2008, si insediasse la Commissione d’accesso. Non fu uno scatto d’orgoglio a sollevare il velo. Ma la paura.
Quella che travolse un giovane assessore nelle prime ore dell’anno 2008: il 3 gennaio andarono a fuoco le auto di Riccardo Izzi, membro della Giunta di Fondi, votatissimo alle amministrative del 2006, rampollo di una famiglia di imprenditori del settore alimentare, ancora oggi considerato il vero pentito del caso Fondi perché dopo il secondo attentato alle macchine di famiglia si sentì così solo e braccato da correre in Prefettura a Latina e poi dai carabinieri e dire, per primo, che nella sua città la misura era ormai colma. Per la verità Fondi era da un po’ di tempo sotto osservazione della Dda: l’otto febbraio del 2008 scattano i primi arresti che poggiano in larga parte su una rete di usura e portano in carcere Vincenzo Garruzzo, un vecchietto apparentemente innocuo, con attività al Mof, ma che – si scoprì – aveva un palmares terrificante. Membro della ndrina calabrese omonima, potente, rispettato persino dai casalesi, se ne andava in giro per Fondi a dire che lui aveva contribuito a nascondere gli autori della strage di Duisburg, circostanza mai del tutto verificata come autentica. Eppure Garruzzo lo diceva.
Lo stesso giorno del suo arresto viene nominata la Commissione che indagherà sui rapporti tra mafia e Comune e che sette mesi più tardi, l’otto settembre 2008, concluderà per lo scioglimento. Non fu un’indagine facile neppure quella: i plenipotenziari di Forza Italia, che allora comandava ovunque in provincia di Latina ed era al Governo, spinsero per un ricorso al Tar avverso il provvedimento del Prefetto; a maggio 2008, quando la Commissione sta già ascoltando alcuni dipendenti, i quali ammetteranno i rapporti con i Tripodo, proprio Giovanni Carmelo Tripodo invia una lettera a giornali e tv dicendo di essere una “povera vittima perseguitata” dal sistema. Questa circostanza sarà in seguito definita dalla Prefettura di Latina come una modalità per condizionare i lavori della Commissione. Dunque l’analisi del condizionamento mafioso sul Comune di Fondi sarà sempre una lotta, fino alla fine, fino al mancato scioglimento per le intervenute dimissioni del sindaco e di tutto il Consiglio a ottobre 2009, dopo un anno di continui rinvii e di veleni che coinvolsero i livelli più alti delle istituzioni locali, in uno scontro al limite dell’eversione.
Il senatore Claudio Fazzone in una trasmissione Rai annunciò di voler querelare il Prefetto in carica Bruno Frattasi, autore della relazione, appunto; il Presidente in carica della Provincia, Armando Cusani, sempre in tv definì la relazione Frattasi “una patacca” e i componenti della Commissione “pezzi deviati dello Stato”. Eppure parallelamente fu un altro procedimento, questa volta penale, a rimettere a posto i tasselli della vicenda Fondi: il processo Damasco che per quanto autonomo era, nei contenuti, perfettamente sovrapponibile all’indagine amministrativa della Prefettura, comunque allegata al fascicolo nonostante la guerra fatta in aula dai difensori. La sentenza di primo grado (confermata in Appello e in Cassazione) viene emessa la sera del 19 dicembre 2011 con condanne per complessivi 110 anni di carcere comminati per la sussistenza di un’associazione mafiosa operante sul fronte delle estorsioni, usura, traffico di droga e armi, nonché in grado di condizionare sia il Comune di Fondi che il Mof, essendosi imposta negli appalti e nei servizi pubblici del settore delle pulizie, dei trasporti e dei servizi funebri, del commercio di frutta e verdura al Mof. Le pene più pesanti furono inflitte ai principali imputati, ossia i fratelli Tripodo e Aldo Trani. Moltissimi dei beni delle persone condannate in Damasco sono stati in seguito confiscati.