Ottant’anni, auguroni Farah Diba! Certo, si tratta di una storia lontana, di un Iran e di un mondo che non esistono più, di una vicenda che ebbe inizio sul finire degli anni Cinquanta e che nacque da una tragedia, ossia dal ripudio della regina Soraya, in quanto aveva fallito la missione di dare un erede allo Scià Mohammed Reza Pahlavi.
L’ascesa sociale di Farah Diba, come donna e come imperatrice, cominciò allora, nel contesto di un Medio Oriente con cui Mattei, presidente dell’ENI, voleva confrontarsi a viso aperto, proponendo il fifty-fifty per quanto concerne la spartizione dei proventi petroliferi e attirandosi, per questo, le ire delle Sette sorelle. Era un mondo che, nonostante questo, guardava al futuro, in cui l’universo arabo era controverso ma non ancora ridotto a una polveriera, in cui non c’erano le tensioni contemporanee e nel quale un personaggio moderato come lo Scià poteva determinare un equilibrio avanzato e sostenibile per la tenuta complessiva del pianeta.
La vita dell’imperatrice Farah Diba è stata sconvolta, nel ’79, dalla rivoluzione khomeinista e dall’avvento della Repubblica islamica degli ayatollah, con il suo carico di conservatorismo retrogrado e pericoloso, come si evince dai rapporti sempre più tesi fra la vecchia Persia e gli Stati Uniti, che pure erano stati tra i fautori di questa svolta e dell’esilio dello Scià.
E così, oggi Farah Diba si divide tra gli Stati Uniti, la Francia e l’Egitto, conduce un’esistenza serena e continua a battersi contro un regime che, non a torto, considera la rovina del suo Paese.
Ottant’anni e una riflessione su ciò che siamo stati.
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