BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Che cos’è la guerra?

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Se volete rispondere davvero a questa domanda – che cos’è la guerra – questa volta potete farlo senza grosse difficoltà, senza dovervi sorbire gli esperti di turno o leggere qualche impegnativo saggio. Guardare questi tre bambini, sono tra le dozzine di feriti arrivati oggi all’ospedale di Emergency a Kabul. Li ho seguiti da quando sono entrati attraverso il “main gate”, l’ingresso dove arrivano taxi carichi di feriti, ambulanze e dove si accalcano i parenti, feriti, una folla a volte persino feroce; l’ingresso dove stamattina un agente dell’NDS (i servizi afghani) mi ha chiesto di togliermi da lì perché aspettavano che l’attacco di un kamikaze un giornalista che faceva riprese avrebbe “incentivato” l’azione, alzano il valore del target colpito.
Oggi si votava in Afghanistan per le parlamentari e i talebani avevano avvertito tutti di stare lontani dai seggi perché li avrebbero attaccati. Qui a Kabul abbiamo persino perso il conto delle esplosioni. Le autorità, dopo una giornata di silenzio per non diffondere il panico tra gli elettori, a sera hanno comunicato che oggi si sono registrati 192 attacchi con 17 morti e 83 feriti, compresi 1 caduto e 10 feriti tra le forze di sicurezza. Ma il panico tra gli elettori l’hanno diffuso la disorganizzazione dell’apparato elettorale: seggi che hanno aperto in ritardo, seggi che non hanno aperto affatto (come in tutta la provincia del Badakhshan), apparati biometrici mancati o malfunzionanti, file enormi tanto che il voto è continuato ben oltre il tramonto ed è stato prorogato a tutta la giornata di domenica (tanto per aggiungere confusione a confusione, perché non è chiaro come si riuscirà ad avvertire le commissioni elettorali dei seggi e gli elettori).
Un fallimento assoluto e senza precedenti per la “democrazia” afghana, il peggior prologo per le cruciali elezioni presidenziali dell’anno prossimo dove non si decide il prossimo presidente ma si ci gioca la prospettiva di una guerra civile.

I tre bambini della foto non hanno versato una lacrima da quando sono entrati, né quando gli sono stati tolti i vestiti di dosso sporchi di sangue e terra, né quando sono state medicate le loro ferite.
Gli afghani non hanno più lacrime ma hanno ancora la dignità di chi vive in mezzo all’inferno, sapendo che non ha un altro posto da chiamare casa.
Bene, quei tre bambini sono il volto della guerra. Non ci dovete aggiungere altro: la guerra è fatta per la stragrande maggioranza di vittime civili, meno burocraticamente di morti e feriti innocenti (guardate per esempio i dati citati poco sopra sulla giornata di oggi, sabato). Persone che nulla hanno a che fare con le parti in conflitto e si trovano prese nel fuoco incrociato. Persone che la guerra non la scelgono, la subiscono.

In questo quadro, i giornalisti (e gli editori) hanno un dovere di cui si dovrebbero ricordare ogni giorno: raccontare la guerra. Perché solo mostrando il volto delle vittime, raccontandone le loro storie, si può far capire ai propri lettori/spettatori/ascoltatori che dietro i numeri, i bilanci delle vittime, le note ufficiali, i bollettini, i lanci riepilogativi di agenzia, ci sono degli esseri umani.
E di fronte agli esseri umani, più che ai numeri, la nostra attitudine (di cittadini e di elettori) verso le guerra “giuste” e “giustificate” cambierebbe decisamente.

Non è economico raccontare la guerra, più passano gli anni più diventa caro perchè è sempre più pericoloso (un tempo i giornalisti non erano bersagli come lo sono oggi). Non è facile raccontare la guerra, significa prendere dei rischi, significa sforzarsi di pianificare ogni mossa, di raccogliere un mare di informazioni prima di decidere se andare a destra o a sinistra, prima di mettere la tua vita nelle mani di un producer e di un’autista, significa non starsene chiuso in un compound fortificato ma andare in giro – come oggi a Kabul – mentre si rincorrono gli aggiornamenti sulle esplosioni e nel giro di minuti devi fare scelte chiave. Ma è necessario farlo perché il pubblico non può essere privato del suo diritto ad essere informato sulle guerre e, soprattutto, ad avere informazioni di prima mano non raccontate da agenzie nè da istituzioni interessate a quel conflitto, in un modo o nell’altro.


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