di Eleonora Martini (“Il Manifesto”) – Quello a cui stiamo assistendo è un’aggressione senza precedenti alla libertà di informazione. Dire che è qualcosa che abbiamo già visto in passato è un errore di analisi politica gravissimo: è un fenomeno nuovo ed inedito internazionale, con riflessi nazionali, e che ha nell’aggressione alla libera informazione un punto strutturale». È molto duro, il giudizio di Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa, non tanto rispetto agli attacchi specifici del vicepremier Di Maio alle testate del Gruppo Gedi, quanto piuttosto riguardo l’atteggiamento del governo giallo-verde nei confronti del giornalismo in generale, «che tradisce il vero obiettivo di questa campagna: indebolire l’articolo 21 e la prima parte della Costituzione».
Si è appena conclusa nella sede dell’Fnsi la vostra conferenza stampa con l’Ordine dei giornalisti, l’Usigrai, Articolo 21 e molti comitati di redazione. Perché proprio ora? È davvero in atto un attacco alla democrazia?
Se il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che è un uomo moderato sente il bisogno più volte di richiamare l’attenzione sull’articolo 21 della Carta, e se un uomo come Steve Bannon, che è stato l’ideologo di Trump e dell’intesa con la peggiore destra americana ed è un esperto della fabbrica delle fake news create per inquinare gli ordinamenti democratici, sceglie l’Italia come sua piattaforma per realizzare una serie di alleanze internazionali, ci sarà una ragione. Non è un film solo italiano, non è una reazione nervosa e non è questione che riguarda solo una testata giornalistica. Trump, Orban, Le Pen, Bolsonaro vincono le elezioni con questo schema: che ogni forma di mediazione, siano essi corpi sociali, corpi intermedi, sindacati o giornalisti sono il male perché si interpongono nel rapporto diretto tra il nuovo potere e la folla – non il popolo che è un concetto nobile. Il principe che si affaccia dal balcone deve poter comunicare attraverso i suoi 140 caratteri e ha bisogno che non ci siano quelli che fanno le domande, che organizzano le persone, o difendono i diritti. Va eliminato non tanto il giornalista ma ogni funzione intermedia, in modo che il cittadino sia solo nel vendere eventualmente se stesso al potente.
Cosa proponete?
Siccome l’articolo 21 tutela da un lato il diritto di cronaca ma dall’altro, ancora più importante, il diritto della comunità ad essere informata, ci sono due proposte unitarie che mirano a coinvolgere l’intera società. La prima idea è verificare la disponibilità degli editori – che sono per ora un soggetto silente – e delle emittenti radiotelevisive, a sostenere una campagna di informazione simile a quella intrapresa negli Usa da 320 testate contro le minacce di Trump ed ogni forma di bavaglio. La seconda proposta è mettere insieme un ampio cartello di associazioni, non solo di giornalisti ma di tutti i soggetti che sono colpiti nei loro diritti costituzionali e sociali e che vedono negato il proprio diritto ad essere informati, per arrivare uniti ad una manifestazione nazionale in difesa della Costituzione.
Nell’ottobre 2009 una manifestazione simile contro le minacce di Berlusconi riempì Piazza del Popolo. Allora, secondo Reporters sans frontières, l’Italia era al 49° posto su 180 nella classifica della libertà di stampa. Oggi siamo al 46° posto. Ma nel 2016, con il governo Renzi Roma era al 77° posto. C’è un problema strutturale? A cosa è servita quella manifestazione?
Quella volta servì a impedire l’approvazione della legge bavaglio. Oggi molti cittadini assistono sgomenti ma non hanno punti di riferimento. La specificità italiana che ci porta a quel punto della graduatoria è la mancata soluzione del conflitto di interessi e del controllo governativo sulla Rai, le leggi antitrust considerate debolissime e il numero di cronisti messi sotto scorta. Il governo del cambiamento aveva annunciato di intervenire su questi problemi ma non ha fatto nulla. E l’Italia rischia un peggioramento per la campagna di aggressione verso i cronisti segnalata anche da Rsf.
Infatti Rsf cita esplicitamente il M5S…
Vorrei però far notare che al contrario di quanto sostiene Di Maio, fino ad ora è passato tutto troppo sotto silenzio, mentre anche durante il governo Renzi noi organizzammo un grande presidio davanti a Palazzo Chigi per protestare contro le politiche del centrosinistra in materia di informazione.
La guerra al giornalismo, nemico giurato del rapporto diretto con gli utenti del web, è uno degli assiomi fondativi del M5S. Il potere, si sa, si nutre del conformismo delle masse, come scrive l’Espresso. Ma se questo governo mettesse in atto le minacce di Di Maio e Crimi – la soppressione dei finanziamenti pubblici indiretti ai giornali, l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti, il divieto di inserzioni pubblicitarie da parte delle aziende partecipate dallo Stato su determinate testate o l’abrogazione delle convenzioni con le agenzie di stampa – a rischio non sarebbe Repubblica ma i giornali come il manifesto, cooperativa di giornalisti.
Infatti non si tratta di un attacco specifico. Quando parlano di taglio ai finanziamenti pubblici sanno bene che non ci sono più, che sono rimasti come forma di tutela del pluralismo solo per alcuni quotidiani come il manifesto, l’Avvenire e alcuni giornali no profit. Ma è il pregiudizio che va combattuto, quello che dipinge come il male chi fa le domande. Di fronte a questo è necessario far capire che non ce l’hanno solo con Repubblica o il manifesto a Monfalcone (dove la sindaca leghista ha deciso di estromettere il manifesto dai giornali della biblioteca comunale, ndr). È alla funzione del giornalista che hanno dichiarato guerra.
Fonte: Il Manifesto (10 ottobre 2018)