Accade. Non spesso quanto si vorrebbe, ma accade: accendi il computer, ti colleghi con le agenzie, e arriva una buona notizia, lungamente attesa. La notizia che la Corte Suprema del Pakistan assolve in appello Asia Bibi, condannata a morte nel 2010 per blasfemia. “E’ assolta da tutte le accuse”, sillaba un giudice coraggioso, Saqib Nisar, che legge il verdetto emesso da una altrettanto coraggiosa Corte suprema; e annuncia che Asia sarebbe stata rilasciata “immediatamente”.
Una storia incredibile di fanatismo e di intolleranza, che pure è accaduta; e chissà quante sono, nel mondo le donne come Asia di cui non abbiamo conoscenza. Asia è una contadina di religione cristiana, madre di cinque figli. Nel 2009 viene denunciata per basfemia. Tutto nasce da una lite con altre donne impiegate come lei i una fattoria nella regione del Punjab, dove lavora. La sua colpa: avrebbe addirittura profanato, con le sue parole il Corano e il profeta Maometto. Reato in Pakistan punito con lunghe pene detentive, spesso con la pena di morte. Come nel caso di Asia: appunto condannata nel 2010 alla pena capitale.
Un destino, il suo, che sembra segnato. Nel 2014, infatti, l’Alta Corte di Lahore respinge il ricorso contro la condanna emessa in primo grado. La vicenda diventa un “caso”; e come spesso accade, quando si accendono i riflettori, e si attiva un processo di conoscenza, ecco che anche i fanatici e gli intolleranti si scoprono vigliacchi: e quello che “coraggiosamente” osano fare nell’ombra e di nascosto, non hanno più il coraggio di farlo alla luce del sole. Le mobilitazioni in favore di Asia, il timore di ripercussioni e sanzioni di carattere economico, “ritardano” e sospendono l’esecuzione. Fino a quando è arrivato il verdetto della Corte suprema, che ribalta la precedente sentenza.
Tutto il castello accusatorio si fonda su testimonianze che, secondo la Corte suprema, sono tra loro contraddittorie. Vero? Artificio per sbrogliare una matassa che con l’andare del tempo si faceva sempre più imbarazzante? Interessa poco, importa che Asia oggi sia libera, anche se ora sarà costretta, con la sua famiglia, a cambiare regione, forse paese, per garantirsi da possibili ritorsioni e vendette da parte di fanatici intolleranti che non mancano mai.
Tutta la vicenda, non fosse tragica, sarebbe da rubricare come ridicola: il solo fatto che si possa concepire di condannare a morte qualcuno per pretesa blasfemia… Eppure è accaduto, accade.
Il processo nei confronti di Asia Bibi si è basato essenzialmente su alcune
Testimonianze; e in particolare quella dello stesso uomo che l’aveva
Denunciata: Qari Mohammad Salam, imam della moschea di Ittanwali, il villaggio
dove Asia e’ nata e viveva con le due sorelle.
Litigio tra donne, si diceva. Immaginiamo la scena: è una calda giornata e un gruppo di donne lavora ei campi. In maggioranza sono di religione musulmana. Due di loro rifiutano di bere alla fontana dove in precedenza ha bevuto Asia: è cristiana, e con le sue labbra ha reso “impura” l’acqua. Da qui, il litigio. Asia difende il suo diritto di bere, e il suo diritto di credere nel suo Dio. Viene aggredita, picchiata. Interviene l’imam, che la denuncia: appunto per blasfemia.
In concreto, la presunta “blasfemia”, sarebbe consistita in una frase buttata lì durante il battibecco: “Credo nella mia religione e in Gesù Cristo, morto sulla croce per i peccati dell’umanità. Cosa ha mai fatto il vostro profeta Maometto per salvare l’umanità?” .
Denuncia accolta, come abbiamo detto, nel 2014. L’Alta Corte di Lahore condanna Asia a condanna a morte. A parte l’abnormità della cosa, gli avvocati difensori della donna denunciano con prove inoppugnabili che l’intera inchiesta è viziata da falsi e abusi. In favore di Asia, che si è sempre dichiarata innocente, e al tempo stesso non ha mai voluto rinnegare la sua fede, scendono in campo le organizzazioni di difesa dei diritti umani.
La vicenda porta sotto i riflettori la più generale legislazione pakistana sulla blasfemia, che ha causato, al di là della vicenda Asia, molte altre vittime. La legge è uno strumento formidabile che consente ricatti e repressioni, ed è usata per regolare dispute materiali e personali. Una legge (“legge nera”, viene chiamata dai suoi oppositori in Pakistan), introdotta nel 1986, durante la dittatura del generale pakistano Zia ul-Haq. Applicata quasi sempre con arbitrio in almeno 1300 casi, ha provocato centinaia di vittime innocenti, 40 condanne
a morte; secondo “l’Economist”, almeno 62 le esecuzioni extragiudiziali o gli assassini eccellenti. La “legge nera” ha causato attacchi nei confronti di intere comunità, come a Shantinagar e nel Multan, nel 1997; oppure Gojra (nel 2009): morti e decine di abitazioni di cristiani date alle fiamme.
“È una grande notizia per il Pakistan e per il resto del mondo. Asia ha ottenuto giustizia”, dice l’avvocato della donna, il musulmano Saiful Malook. Ma “abbiamo molta paura di quanto potrà succedere. In questo Paese ci sono molti fondamentalisti”.
Quello di Asia non è un caso isolato. L’annuale rapporto del “World Watch List”, fornisce un quadro impressionante per quel che riguarda le vittime dell’intolleranza religiosa e del fanatismo: quasi duemila detenuti senza processo; 1.252 persone rapite, oltre mille stuprate, 33.255 vittime di abusi fisici o psicologici, 1.240 costrette a sposarsi con la forza. Oltre 215 milioni gli oppressi in ragione della loro fede, secondo il rapporto che prende in esame il periodo compreso tra il novembre del 2016 e la fine di ottobre del 2017.
Violenze e vessazioni sono in aumento in Corea del Nord e in Afghanistan: si confermano alla guida della classifica dei dieci Paesi in cui il grado di persecuzione è considerato estremo. Un macabro “record” che Pyongyang detiene da ben 16 anni consecutivi. “Bollino rosso” anche per Somalia, Sudan, Pakistan, Eritrea, Libia, Iraq, Yemen, Iran ed India. Il Pakistan è il Paese dove la persecuzione anti-cristiana assume le forme più violente. Anche la vicina India scala la classifica, guadagnando otto posizioni rispetto al 2017, a causa della crescita del radicalismo indù. Più di 24mila cristiani sono stati aggrediti fisicamente in India soltanto lo scorso anno. Anche il Nepal segue lo stesso trend, entrando per la prima volta nella black-list. Tra le new entry del 2018 anche l’Azerbaigian, Paese in prevalenza musulmano in cui il grado di persecuzione nei confronti dei cristiani viene stimato come “alto”.
Nonostante la sconfitta dell’Isis in Siria e in Iraq “l’oppressione islamica”, secondo il rapporto, “continua ad essere la fonte principale di persecuzione dei cristiani” nel mondo. Ciò è dovuto ad alcune tendenze definite preoccupanti, come la radicalizzazione delle aree dove l’Islam è la religione più diffusa, tra cui l’Africa occidentale, orientale e del Nord, e l’espansionismo islamico in zone tradizionalmente non musulmane, come l’Africa sub-sahariana, l’Indonesia o la Malesia. Tra le principali dinamiche persecutorie c’è anche il nazionalismo religioso, che cresce anche nel mondo buddista, in Sri Lanka, Buthan e Myanmar. Il nazionalismo ideologico è la principale fonte di soprusi in Cina, Vietnam e Laos, mentre è la “paranoia dittatoriale” a spingere il regime eritreo e quello nordcoreano ad accanirsi contro i cristiani.
Nel mondo, ha detto una volta Albert Einstein, più che dalle persone che fanno il male, è minacciato da quelle che lo tollerano. Nel caso di Asia, molti hanno deciso di non tollerare, di non essere, con il loro silenzio. Ma è una goccia nell’immenso oceano delle persecuzioni e delle fanatiche intolleranze.