di Fabio Tonacci
Ancona non è Gioia Tauro. Non è Napoli, non è Taranto, non è Civitavecchia e non è nemmeno Genova. Le cronache giornalistiche non lo inseriscono nel gruppo dei porti dove transita il grosso delle merci di contrabbando e della droga, e su cui la mafia ha messo da tempo le mani.
Quello di Ancona appare come uno scalo tranquillo e silenzioso, in una regione, le Marche, tranquilla e silenziosa. Si potrebbe dire quasi dimenticato, dunque, per certi versi, molto interessante.
Una premessa va fatta: finora le inchieste della magistratura non hanno documentato infiltrazioni di tipo mafioso al porto di Ancona, né sono state scoperte collusioni indirette con le cosche. Quindi perché parlarne in un blog sulle mafie? Proprio perché Ancona non è Gioia Tauro, Napoli, Taranto, Civitavecchia e Genova. Perché, per dirla con le parole del procuratore generale di Ancona Sergio Sottani, “l’assenza della prova non vuol dire la prova dell’assenza”.
Per caratteristiche, posizione geografica e rotte in entrata, infatti, è uno scalo che a un certo tipo di criminalità interessa, eccome se interessa. Intanto perché è in espansione, come dimostrano gli ultimi dati dell’Autorità di sistema portuale del mare Adriatico centrale: cresce il numero dei passeggeri dei traghetti (+ 13,1 per cento nel primo semestre 2018 rispetto allo stesso periodo del 2017, in termini assoluti 343.888 passeggeri), cresce il movimento delle merci nei tir (+6,6 per cento, 1,2 milioni di tonnellate nei primi sei mesi dell’anno). Si è guadagnato la definizione di “terminal delle autostrade del mare di rilevanza europea verso l’area balcanica”. Sempre di più, e sempre nel silenzio.
Storicamente, l’ex Jugoslavia è terra di facile contrabbando: polizia e carabinieri italiani individuano lì, in quel crocevia di etnie, religioni, fragili governi, l’area in Europa dove più liberamente prolifera il traffico d’armi (anche da guerra), di alcool, di sigarette e di stupefacenti. Le rotte in entrata e in uscita dal porto di Ancona collegano proprio l’Italia alla Croazia, all’Albania e alla Grecia.
L’anno scorso un funzionario delle dogane e uno spedizioniere furono arrestati dalla procura di Rieti per corruzione, insieme ad altre sei persone: si facevano pagare per falsificare documenti di transito, così la banda riusciva a evadere l’accisa e l’iva, facendo risultare esportata dal porto di Ancona verso paesi dell’Africa centrale merce proveniente in regime di sospensione d’imposta dai depositi fiscali di altri Paesi. Hanno fatto entrare in Italia, in nero, circa 1.200 tonnellate di prodotti.
Nell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia (2017), si trova un altro indizio. A proposito della presenza della criminalità campana nelle Marche, si legge: “Un indicatore di tale presenza è il costante sequestro di stupefacenti, fatti transitare dal porto di Ancona. Alcuni gruppi campani, facenti capo ai clan Iovine e Graziano, facevano arrivare sulle piazze di spaccio locali, la droga proveniente dalla Campania”. E gli analisti dell’Antimafia inseriscono Ancona tra i “principali punti italiani di approdo” utilizzati dalla mafia cinese per importare prodotti contraffatti: maglie, borse, giocattoli, elettronica.
Tant’è che Sottani, e il nuovo procuratore anconetano Monica Garulli, daranno presto una stretta ai controlli al porto. L’impressione è che, tra doganieri e capitaneria, finora non ci sia stata tutta questa voglia di ficcare il naso nei container di Ancona. Che si siano accontentati, quindi, dell’assenza della prova.