Verso Assisi. I giornalisti e le parole: il coraggio della parresia

0 0
Come ritrovare, dare un senso alla “sacralità” delle parole  per chi svolge il mestiere di informare? Il giornale – ha detto Claudio Magris – si tuffa nel mondo e nella sua polvere, senza rinchiudersi in una pretesa purezza da torre d’avorio, ma partecipando alla calda vita, alle sue contraddizioni, ai suoi sogni, ai suoi compromessi e alla sua incertezza. Certo, frugando nella polvere del reale ci si può sporcare le mani , ma l’unico modo perché queste siano veramente e non sterilmente pulite e aiutino a rendere più pulito il mondo è immergerle nel disordine delle cose, degli eventi e dei sentimenti per trovare, scoprire e rivelare un senso e una verità.
La parola è dunque il “luogo” della contaminazione con il mondo, lo spazio di relazione in quell’interminabile viaggio intorno all’uomo che è il giornalismo. Ma proprio perché la parola è il segno distintivo dell’informare sull’avventura umana, è importante che non finisca con il perdersi, con il non contare più nulla, con l’essere ridotta a urlo o a brusio, insomma a insignificante rumore di fondo.
Le parole appaiono stremate, logorate dagli slogan, ingozzate di significati impropri, traumatizzate dalle risse. La parola svilita, abusata, profanata è oggi il mezzo con cui vediamo esplodere intorno a noi una cattiveria ostinata e dilagante, esibita e trionfante. Un astio rancoroso e profondo, non solo conclamato, ma rivendicato con disinvoltura, fino a far quasi apparire l’attacco al “nemico” come il senso comune di un tempo che sembra aver perso il buon senso.
Abbiamo consumato le parole, le abbiamo estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare dobbiamo rigenerare le nostre parole.
Bisogna fermarsi a riflettere e a valutare dove questa deriva della parola può condurre una democrazia, una società. Un compito che tocca soprattutto a chi usa più di altri le parole  è quello di custodire e salvaguardare lo statuto della parola. E’ un’azione con valenza politica: se si svuota la parola inevitabilmente si destabilizza la democrazia. Viviamo di parola scambiate, di concertazione, di dibattito, di dialogo e così cerchiamo un bene e un senso comune. Se la parola, invece, viene pervertita e svilita allora si destabilizza la convivenza civile e si corre il rischio di non affidarsi più al potere della parola ma alla parola del potere.
Dobbiamo recuperare la consapevolezza che la lingua funziona come un deposito collettivo di idee, valori e giudizi e che costruisce i comportamenti a partire dal nostro ingresso nel mondo. In questo senso è – come l’acqua –  un bene pubblico, condizione di sopravvivenza di una comunità.
I giornalisti possono anzi devono  salvare la sacralità della parola praticando la difficile virtù della parresìa, cioè il coraggio di dire e raccontare la verità, a ogni costo. La difesa a oltranza e a ogni costo del diritto di informazione pretende di richiamarsi a questa virtù antica. Il giornalista/parresiasta è un testimone: non pretende di conoscere tutta la verità, ma sa qualcosa di essa, e sente il dovere di dirlo. Questo richiede una preparazione rigorosa e un linguaggio adatto.
Oggi il mondo rischia di essere sommerso da un naufragio di parole. I giornalisti hanno il compito di fare della parola di nuovo un’arca di salvezza, perché  nella Bibbia ebraica  la parola arca voleva dire proprio parola. Salvare le parole dal naufragio di senso, per contribuire a salvare con le parole.

*Consigliere Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti 


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21