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Venezia 2018. I Classici Restaurati. ‘Il posto’ di Ermanno Olmi. Due esseri nel nuovo mondo

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“Il tempo si è fermato”, ’59, opera d’esordio di Ermanno Olmi, era un film bloccato, fermo, appunto, dentro quattro mura, a disegnare geometricamente e metaforicamente il senso stesso dell’esistenza. “Il posto”, ’61, seconda pellicola del maestro bergamasco, si muove e, anche tanto, in senso circolare, approdando, nell’epilogo, al punto di partenza, per farci intendere il girare a vuoto di una società, quella italiana del boom economico, che tutto rimetteva in moto senza, però, preoccuparsi di dare una direzione a questo movimento, destinato a chiudersi su stesso, ciclicamente, con l’unico scopo di produrre ricchezza, noncurante del fattore umano.

Il neocapitalismo pasoliniano produce solitudini e illusioni, ed Ermanno Olmi rilegge le analisi del poeta friulano applicandole a due esseri che si approcciano a vivere la loro nuova vita, forse lontana dagli stenti della precedente, ma ingabbiati in qualcosa di più grande di loro, che decide già da subito il loro destino. I giovani Domenico (Sandro Panseri), della provincia milanese, e Antonietta (Loredana Detto), milanese periferica, si incontrano ad un esame selettivo di una grande impresa del capoluogo lombardo. I silenzi in cui essi si muovono, interrotti solo dai rumori di sottofondo, disegnano efficacemente la poesia scritta da Olmi su questi volti perplessi, strappati a una giovinezza troppo breve e a una povertà pregna di verità che da lì a poco sarà smarrita inevitabilmente.

La fine del gioco e l’inizio del compromesso coincideranno a regalare allo spettatore il senso di sperdimento di un intero paese, tentato e poi ingannato. Usciti dalla prova, Domenico e Antonietta si concedono una passeggiata che li porterà ognuno verso il proprio destino. Ma prima si aiuteranno ad entrare nella vita, dandosi la mano per attraversare la strada, bevendo un caffè come fosse un avvenimento, guardando incantati le vetrine dei negozi del centro come fossero giochi di luce. Il tutto parlandosi sommessamente, come un’antica educazione e una vita rispettosa di tutto avevano insegnato loro. Olmi registra con gli occhi, insegue vite, scolpisce sentimenti e momenti come solo Gozzano era riuscito a scriverne. Preso il posto, Domenico e Antonietta si rincontreranno una sola volta, a sancire l’uscita da un’adolescenza ormai avviata verso una maturità fatta di regole e tempi da rispettare. Niente più illusioni.

Il senso di angoscia che ci coglie è arte del mettere in scena l’inevitabile scorrere del tempo e le modalità con cui l’uomo veicola spietatamente tutto ciò. Olmi non fa cinema, lo usa perché non vuole rinunciare a conservare la memoria di un mondo che sta scomparendo. Sguardi, parole necessarie, pudori sono colti al momento giusto, prima di perdersi in quella complessità della società contemporanea che ci frammenta e segmenta fino a renderci fantasmatici.

Scompaiono Domenico e Antonietta, come scompaiono i protagonisti dei coevi “Accattone” del succitato Pasolini, “La notte” di Michelangelo Antonioni, “Una vita difficile” di Dino Risi. Tutti autori che, benchè lontanissimi in forma e contenuto, per agio anagrafico hanno potuto e voluto raccontarci di una realtà velocemente fattasi a discapito di un’altra che dopo secoli di fatica era stata costretta ad uscire di scena spietatamente, irrimediabilmente. E lo sguardo finale sperduto di Domenico, moderno Buster Keaton, seduto alla sua piccola scrivania, in attesa di niente, è la giusta e necessaria sintesi di tutto. Immortale Olmi.


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