Ci sono tanti modi per guardare all’accordo provvisorio raggiunto tra Vaticano e Cina sulle ordinazioni episcopali. Uno, indiscutibile, è che questo inizio di intesa tra i simboli di Oriente e Occidente arriva in un momento molto complesso per i rapporti tra Cina e Stati Uniti: in un momento politicamente di grave difficoltà questi due mondi, il cuore millenario della cultura occidentale e quello parimenti millenario del mondo orientale, si incontrano, parlano, si capiscono. Stiamo parlando di un impero che oggi come nei millenni trascorsi non si è mai considerato luogo di incontro tra uguali ma espressione della volontà del sovrano realizzata dalla burocrazia statale e della Chiesa cattolica, universale. Il più elementare criterio di valutazione, ma anche sorprendentemente il meno rilevato, è quello loro, dei cattolici cinesi; dopo decenni di difficoltà considerevoli la loro vita da oggi sarà più semplice, la loro vita religiosa più piena.
Il secondo criterio è quello storico, e qui il discorso si fa più ampio della stessa Cina, perché l’ultimo impero, quello che dalla sua nascita nella forma comunista ha sempre lavorato alla costruzione di una Chiesa patriottica, cioè fedele a Pechino e non a Roma, accetta la separazione tra potere politico e spirituale proprio nelle ore in cui molte cancelliere occidentali dimostrano una grande nostalgia per l’epoca costantiniana, archiviata in qualche modo dal Concilio Vaticano II e chiusa esplicitamente da Papa Francesco. Il disegno di certe politiche, obliquo e ufficioso, è quello di costruire delle chiese cattoliche nazionaliste, in fin dei conti patriottiche, fedeli più ai governi che al papa. Il modello viene dunque abbandonato lì dove era prassi da oltre 70 anni. E la grande opportunità è appena agli inizi: la Cina che ormai dà l’impressione di sapersi non più autosufficiente, ma sin qui si è aperta al mondo pensando di plasmarlo a sua immagine, per la prima volta ora va incontro a un criterio non di potere assoluto, il capo della Chiesa cattolica in Cina è il vescovo di Roma. Chi cambierà maggiormente chi? La questione l’ha colta e spiegata benissimo il direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, che ha scritto in queste ore: l’annuncio in Cina “deve essere pienamente cinese, andando a fondo nel processo di inculturazione, alla luce dell’universalità proprio del cattolicesimo. Dunque: pienamente cinese e pianamente cattolico.” Qui c’è la ricetta del cattolicesimo non solo per la Cina, la ricetta oggi più importante per il mondo tentato in molti suoi gangli soprattutto occidentali dal ritorno a nazionalismi antichi, mitologici, romantici. La prospettiva indicata da Spadaro è religiosa, riguarda l’inculturazione evangelica, l’evangelizzazione delle culture, ma valutarla con occhio non soltanto ecclesiale è possibile, anche perché il mondo globale per restare tale ha bisogno di un’etica globale.
Per la prima volta vediamo, con questo accordo, la Cina “aprirsi” proprio quando l’Occidente sembra rinchiudersi, ritirarsi, nelle fortezze dell’America First o della crisi centrifuga europea incapace di porsi i problemi di integrazione, politiche regionali di sviluppo, dialogo.
Lo riesce a fare il Vaticano con la Cina, coronando un lavoro cominciato certamente tanti decenni fa ma arrivato a indicare punti di progresso nel lontano 2007, dopo le missioni in Cina dell’attuale segretario di stato vaticano, cardinale Pietro Parolin. Fu allora che papa Benedetto prese carta e penna e scrisse ai cattolici cinesi, dicendo che i problemi non si potevano risolvere in un’ottica di eterno conflitto con le autorità centrali, con il governo di Pechino e nell’ingerenza dello Stato nella Chiesa. Di qui era naturale desumere che, come ha scritto padre Joseph You Guo Jiang su La Civiltà Cattolica un anno fa, “poiché la Cina ha caratteristiche proprie che la distinguono dal resto del mondo, la Chiesa cattolica cinese deve imparare a rapportarsi alla cultura locale e all’autorità politica. In altri termini, pur mantenendo la propria identità, la Chiesa è chiamata a sviluppare «una Chiesa cattolica cinese dai tratti cinesi», in modo da inculturare i suoi insegnamenti e i valori del Vangelo. […] Fin quando il partito comunista cinese rimarrà l’unico partito di governo, il marxismo continuerà a essere il riferimento ideologico della società. Perciò la Chiesa cattolica cinese è chiamata a ridefinire il suo ruolo e le sue relazioni con il Partito.” Si potrebbe esprimere questo concetto anche così: “la Chiesa non può rinunciare.” Non ci si definisce contro, ma si nuota nello stesso mare, mettendo le proprie idee al servizio del bene comune cinese.
Le parole dell’arcivescovo emerito di Hong Kong, cioè in pensione, il cardinale Zen, che in un’intervista ha detto che il segretario di stato dovrebbe dimettersi, vanno esattamente nell’altra direzione. La Chiesa cattolica si definisce nel suo essere contro quel regime. Il porporato però non ha i titoli per esprimersi a nome della sua diocesi, li ha il suo successore, che è favorevole. Esprime però un’opinione personale radicata in una lotta al sistema che non aiuta la Cina a ridefinirsi, aggiornarsi. Si parla molto di martirio a questo riguardo, e il segretario di stato vaticano oggi in carica, accusato da Zen di non essere un uomo di fede ma un diplomatico, ricorderà certamente il titolo del libro più famoso del suo maestro, il cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato di Paolo VI, che scrisse il “martirio della pazienza”. E’ la pazienza la vera strada del cambiamento. Le parole del cardinale Zen indicano infine la rilevanza del ruolo svolto dal segretario di stato, famoso per il successo dei suoi negoziati con il Vietnam, dove i cristiani oggi vivono indiscutibilmente meglio di prima. Dunque viene prima l’avversione per la natura del regime o la pazienza di chi con la diplomazia sa migliorare la qualità della vita religiosa cattolica cinese ed esplorare strade nuove, per la Cina e forse per il mondo? Un aspetto non irrilevante e non ipotetico, visto che già oggi il Vaticano ha potuto annunciare la costituzione nella Cina Continentale della diocesi di Chengde
La Cina non è autosufficiente e si apre al mondo per cambiarlo secondo i suoi criteri, il punto di partenza però è un cambiamento della Cina, visto che accetta di separare politica e religione. La prova è enorme, anche per noi che viviamo in un occidente incerto di sé: diventa fondamentale capire chi e quanto modificherà chi. Non a caso i gesuiti di Civiltà Cattolica della Georgetown University già annunciano il “China Forum per il dialogo di civiltà”. Chiunque ha orecchie per intendere intende la portata della sfida. Che riguarda tutti.