Dopo il Grand Prix per C’era una volta in Anatolia del 2011 e la Palma d’Oro ricevuta per Winter Sleep (Il regno d’inverno) nel 2014 il regista turco Nuri Bilge Ceylan, è tornato la scorsa primavera sulla Croisette con “L’albero dei frutti selvatici” dove, stante l’assenza di riconoscimenti ufficiali il film è stato accolto con particolare favore dalla critica festivaliera. Il film verrà distribuito da Parthénos nelle sale italiane a partire dal 4 ottobre.
Protagonista di questo ultimo lavoro è Sinan, un giovane appena laureato in lettere che dalla città dove ha compiuto gli studi torna nel suo paese natale in Anatolia. Sinan vorrebbe diventare uno scrittore, così, tornato a casa si mette alla ricerca di fondi necessari alla pubblicazione del suo scritto, un compendio di riflessioni personali, intime, che delineano un nuovo concetto di identità rurale, “Il pero selvatico” da cui prende nome il film nel suo titolo originale.
Tuttavia nella sua regione le uniche pubblicazioni che trovano sovvenzioni sono quelle di carattere turistico-informativo e i suoi tentativi falliscono miseramente. Con distacco Sinan partecipa anche al concorso statale per diventare insegnante, unica reale prospettiva per uno con i suoi requisiti, anche se le chance di essere mandati all’est nelle zone calde sono molto alte e Sinan vorrebbe costruirsi un percorso diverso da quello del padre, un insegnante prossimo alla pensione con una passione per il gioco d’azzardo che sta mandando in rovina la famiglia.
E’ proprio attorno a questo scontro generazionale padre-figlio che si snoda questo film fiume di Ceylan, della durata di oltre tre ore. Da una parte il mondo legato alla tradizione, al passato, che si configura come quello del dovere, dall’altra quello del futuro, del sentire, del desiderio. Ma l’emancipazione di Sinan passa proprio attraverso la negazione del proprio passato e delle proprie radici ed è proprio sul dualismo padre-figlio che fa perno il film. Da una parte quel padre solo ed incompreso – proprio come il pero selvatico che diventa efficace metafora – che ha perso il rispetto della comunità (e del proprio figlio) per via del gioco e quel figlio (che se ne vergogna) che lo critica con veemenza ma che in fondo ha paura di fare la sua stessa fine.
A questa linea narrativa Ceylan lega anche altro e oltre. Ad intervallare i lunghi silenzi ci sono dialoghi fiume via via più incisivi, che diventano occasione per Ceylan di approfondire temi legati all’attualità turca alla quale il film appare fortemente radicato. Sinan parla dapprima con gli Imam di religione, ma anche di metafisica, interrogandosi sul ruolo delle religioni nella società moderna “Le religioni non codificano il mondo al posto nostro? si domanda. Incontra quindi l’affermato scrittore Suleyman con il quale si confronta, in modo via via più incalzante, su letteratura ed editoria; con la madre tratta invece del ruolo della donna nella moderna società turca. Interessanti anche i dialoghi col padre fitti di incomprensione e di condanna.
Non mancano scene surreali, poche ma memorabili come quella in cui Sinan si rifugia nella pancia di un cavallo di Troia, enorme scultura al centro del paese, che assume il senso di un luogo in cui proteggersi, quasi fosse un ventre materno più che uno strumento volto ad ingannare ed attaccare nemici esterni. Memorabile anche la fotografia di Gokhan Tiryaki.
Un’opera certamente di nicchia che merita di essere vista anche per l’eccezionale caratterizzazione dei personaggi.