In principio era il corpo. E il corpo che si vede all’inizio del film di Alessio Cremonini Sulla mia pelle è quello di Stefano Cucchi, cadavere, nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, a una settimana dall’arresto, avvenuto il 15 ottobre 2009 per la detenzione di 20 grammi di sostanze stupefacenti. Un film importante, presentato in concorso alla sezione “Orizzonti” alla Mostra del Cinema di Venezia, diretto e recitato benissimo, senza un sbavatura, senza un cedimento alla retorica o all’autocompiacimento, un film sulla morte di Stefano Cucchi, che non santifica ma denuncia, senza uscire mai dai binari di quello che si sa dagli atti dei procedimenti giudiziari; un film che comincia dalla fine – peraltro risaputa – e che prova ad andare a ritroso scandendo gli accadimenti accertati, gli spostamenti, gli intoppi burocratici e infine il rapido declino del ragazzo in seguito alle ferite riportate e non adeguatamente curate.
Si vede il calvario della famiglia, dei genitori che provano a far visita al figlio ma vengono sempre respinti per mancanza delle autorizzazioni necessarie; si vede la rabbia iniziale della sorella Ilaria, convinta che Stefano sia di nuovo dipendente dalla droga, tramutarsi in preoccupazione impotente; si vede soprattutto Stefano, che non parla di quello che gli è successo e rifiuta le cure.
Quello che non si vede è il pestaggio in caserma che lo porterà in fin di vita, perché ancora manca la parola definitiva in giudizio (l’anno scorso il gup del Tribunale di Roma ha disposto il rinvio a giudizio di tre carabinieri per omicidio preterintenzionale nell’ambito dell’inchiesta bis sulla morte, mentre il 19 aprile 2017 la Cassazione aveva annullato la sentenza che assolveva i cinque medici dell’ospedale Pertini, appena un giorno prima della prescrizione del reato) ma lo spettatore è comunque costretto ad assistere, impotente lui stesso, alla tortura fisica e psicologica che Stefano Cucchi subì in carcere a causa della violenza prima e dell’indifferenza poi. Quando entra a Regina Coeli, dopo la convalida dell’arresto, ha ecchimosi in volto e sulle gambe, lesioni al torace, la mascella e una vertebra rotta. Tutori dell’ordine, guardie, medici, infermieri, tutti se ne lavano le mani. Eppure quello che Cremonini ti schiaffa in faccia grazie anche alla splendida interpretazione di Alessandro Borghi, è che era impossibile non notare il corpo di un giovane uomo cedere e consumarsi ogni giorno di più fino alla morte.
Ecco allora che il film è anche una Passione, che ancora una volta si consuma davanti alla cecità di chi passa di lì e dovrebbe accorgersi di cosa accade. Il corpo macilento di Cucchi, che a nessuno interessa, mentre i genitori bussano all’ingresso inconsapevoli e inascoltati, è una tortura per lo spettatore e ricorda che la sua morte è anche una responsabilità collettiva di cui dobbiamo farci carico. Come Cucchi, su cui il regista non ha uno sguardo indulgente ma lo rappresenta come un ragazzo fragile, ex tossicodipendente e dedito ancora allo spaccio di hashish e cocaina, altre centinaia di detenuti muoiono in carcere in Italia (quasi mille morti dal 2002 al 2012, soprattutto suicidi, ma la categoria “da accertare” riguarda il 19% dei casi, secondo i dati Ministero della Giustizia), in silenzio e senza clamore, magari perché non hanno avuto in sorte una famiglia con la capacità di battersi per loro, ma non per questo meno degni di essere difesi in uno Stato di diritto. Cremonini riesce a dire proprio questo: non è che Cucchi doveva essere risparmiato perché alla fine era un bravo ragazzo un po’ debole; semplicemente Cucchi non doveva subire violenza e indifferenza in una struttura carceraria. Come invece succede, ogni giorno.
Il film inizia e finisce sulla stessa scena, il corpo esanime di Stefano Cucchi, perché è lì che dobbiamo tornare tutti. E se, a spulciare fra i commenti sui social, sono in molti a dire che non andranno a vederlo al cinema (o su Netflix, in distribuzione dal 12 settembre) perché sarebbe troppo penoso, io credo invece che essere costretti alla visione di che cosa significhi soffrire per i calci ricevuti – di come non si riesca a urinare, a girarsi sulla schiena, a dormire o a mangiare – sia il minimo che dobbiamo a una fine tanto ingiusta. Fa male vederlo? Anche questa è l’Italia, signore e signori: guardate.