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Rai. Senza un nuovo modello organizzativo nessun piano editoriale e industriale

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Gli ultimi due Consigli di amministrazione della Rai si sono distinti per non essere riusciti ad approvare il piano industriale e il piano editoriale. Si è molto insistito sulle responsabilità dei DG e sui veti incrociati dei partiti, trascurando la causa strutturale di quei fallimenti: un modello organizzativo che affonda le sue radici nella riforma del 1975, un edificio malridotto e impossibilitato ad accogliere qualunque piano innovativo e in linea con i tempi.
L’attuale struttura della Rai si presenta come una congerie di monadi monomediali (reti, testate, direzioni editoriali e di servizi) che non comunicano tra loro se non per sgomitarsi a vicenda.

Questa frammentazione del comparto ideativo-produttivo è solo un ottimo brodo di coltura della lottizzazione; per il resto è del tutto inefficiente, tant’è che le reti e le testate a malapena producono per il proprio palinsesto. Di conseguenza in Rai, con qualche rara e parziale eccezione, tutti fanno tutto. Inoltre, questo modello organizzativo per media – piuttosto che per generi (informazione, fiction-cinema, intrattenimento, cultura-education, sport) – incide negativamente sulla qualità dei contenuti. Infatti, dalla frammentazione dei generi tra reti e testate, conseguono strutture ideative e produttive dotate di risorse economiche esigue e al cui interno operano professionalità costrette a esprimersi entro un perimetro rigorosamente monomediale.
Come si può pensare che la Rai possa arginare la pervasività delle media company e dei grandi aggregatori di contenuti facendo leva sulle Direzioni di rete televisive, strutture di piccolo cabotaggio che tuttavia ideano, producono e articolano l’offerta? La creazione di nuovi format intermediali richiede grandi investimenti, coproduzioni internazionali, alleanze strategiche e profili professionali che progettano e realizzano prodotti per molti-media; quindi, strutture altamente specializzate e dotate di adeguate risorse economiche e produttive: nulla a che vedere con le attuali direzioni di rete che, a causa della loro dimensione, i format possono solo acquistarli o darli in appalto piuttosto che idearli e produrli, con la conseguenza di omologare sempre più l’offerta di servizio pubblico a quella delle Tv commerciali.
Negli ultimi decenni sono state apportate modifiche al modello organizzativo ma, per lo più, sotto il segno dell’estemporaneità generando una sorta di stratificazione geologica di organigrammi sovrapposti gli uni agli altri in maniera del tutto incoerente. A ben vedere, la struttura aziendale non corrisponde a nessuno dei quattro modelli organizzativi canonici (gerarchico, divisionale, a matrice, funzionale) sebbene li comprenda tutti, come un collage o un pot-pourri. Ha l’aspetto di un arcipelago composto di isole editoriali sparse e non comunicanti, di Centri di produzione organizzati come officine tayloristiche che demotivano i lavoratori e sedi regionali vissute come un fardello laddove sarebbero una preziosa risorsa per dare visibilità al “mondo della vita”, a quel pluralismo sociale che i talk show hanno contraffatto riducendolo a puro artificio retorico e rissoso.

Pertanto, stando così le cose, è una fortuna che il piano industriale e quello editoriale non siano stati approvati perché non avrebbero fatto altro che perpetuare, cristallizzandola, la struttura attuale: una babele organizzativa in gran parte responsabile del declino ideativo e produttivo della Rai.
C’è da augurarsi, quindi, che il nuovo CdA non incappi nello stesso errore e che proceda, preliminarmente, alla riorganizzazione dell’azienda nella consapevolezza che l’efficienza di un servizio pubblico, in particolare di un bene comune qual è la Rai, prima ancora che un problema di ingegneria aziendale è una questione di democrazia. Varrà la pena iniziare a discuterne aprendo un confronto pubblico tra i vertici aziendali, le rappresentanze sindacali e i membri della Commissione di Vigilanza. Articolo 21 s’impegna a promuoverlo.


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