“Non siamo carcere”: come funziona una casa famiglia per madri detenute

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Parlano Andrea Tollis e Elisabetta Fontana, i fondatori della prima casa protetta d’Italia nata a Milano. “Rebibbia obbliga a guardare in faccia la realtà. Il reato non è il primo dei problemi, i bambini devono stare fuori dal carcere”. La prima madre accolta nel 2010: “Una corsa al parco con suo figlio dopo tre anni, qualcosa di straordinario”

MILANO  – La descrizione più efficace l’ha data un bambino: “Lavorano in un posto dove vengono persone che hanno fatto cose brutte ma sono lì per fare una vita nuova”. Lui è il figlio più piccolo di Elisabetta Fontana e Andrea Tollis e spiega così alle maestre la professione dei genitori. Loro sono rispettivamente la presidente e il direttore dell’associazione Ciao Onlus, che gestisce la casa-famiglia per madri detenute di Milano, la prima d’Italia, a cui se n’è aggiunta una inaugurata a Roma, e che quest’anno festeggia il suo secondo compleanno in città, dalla firma della Convenzione stipulata nel 2016 con Comune, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, Tribunale di sorveglianza e Tribunale ordinario di Milano. Un lavoro che i due coniugi portano avanti nel campo della detenzione già dal 1995 e dal 2010 sull’accoglienza delle madri detenute, prima del riconoscimento formale. “La prima mamma che abbiamo avuto non era mai uscita in tre anni assieme alla figlia – racconta Elisabetta Fontana –. Una corsa nel parco, un pacchetto di caramelle comprato al negozio, per loro era qualcosa di straordinario e da lì siamo partiti”.

L’ultimo piano di una vecchia scuola, tre appartamenti autonomi abitati in condivisione da due mamme e i relativi figli, sullo stesso piano l’ufficio della onlus, una sala giochi e un altro spazio comune. Questi i luoghi che ospitano sei donne e sette bambini ma che dal 2010 hanno visto passare i volti e le storie di 22 madri e 27 minori. Spesso straniere. Ragazze che accedono a istituti alternativi alla pena in carcere, o alla custodia cautelare ai domiciliari in attesa di processo ma che non hanno riferimenti abitativi sul territorio. “L’avvocato, l’educatore, la polizia su indicazione del magistrato di sorveglianza chiama – spiega la presidente – per conoscere la nostra disponibilità e viene fatto il percorso”. Percorsi che sono sempre “lunghi” perché “nessuno viene mandato via al fine pena se non ha una soluzione alternativa, che può essere anche l’espulsione, la scelta di ritornare volontariamente nel proprio Paese, un ricongiungimento con il compagno o c’è chi ottiene la casa popolare”. Sempre e comunque con lo stesso spirito: “Noi non siamo carcere – afferma Fontana – ma l’ultimo passaggio di questa filiera. Alla stregua di una casa privata, ma con tutta una serie di garanzie e sostegni che la casa privata non può offrire, né alla madre né al magistrato”.

Per esempio, pochi minuti dopo essere intervistata la donna si reca a prendere a scuola una delle bambine che vivono lì: “Oggi la mamma aveva il permesso di andare a prenderla dalle 16, ma sono andata io perché nella prima settimana di scuola gli orari si fermano alle 14:30”. Per tutto il resto “garantiamo accoglienza abitativa, rifornimento di beni, la regolarizzazione dei documenti, l’accompagnamento socio-educativo, all’essere madre nel rapporto con i figli, l’obbligatorietà dell’accesso scolastico e ai servizi sanitari, attraverso operatori e uno psicoterapeuta”. Non sempre è facile: “Sui  percorsi scolastici, laddove non si riesce con l’iscrizione al nido però c’è la necessità, si paga qualcosa in più  per far accedere i bimbi ai Centri per la prima infanzia”.

È  forse la cosa migliore che ho fatto in questi anni”, ha detto l’avvocato e consigliere comunale di Milano, Alessandro Giungi, che nel 2016 da presidente della sottocommissione carceri sponsorizzò il riconoscimento della casa famiglia dopo un sopralluogo proprio nei locali di via Magliocco. Lo dice in relazione a quanto accaduto nel carcere di Rebibbia, dove una donna in custodia nella sezione “Nido” ha ucciso i suoi due figli, uno di quattro mesi, gettandoli dalle scale. Erano due dei 62 bambini che ancora nell’Italia del 2018 vivono in carcere. Un fatto di cronaca che ha riacceso i riflettori su un tema scottante e ignorato. “I bambini non devo stare in carcere – aggiunge il consigliere –. Le case famiglia protette per madri detenute sono il passaggio ulteriore per dare seguito alla legge 62 del 2011 che parla di superare addirittura gli Icam”. Parla degli Istituti di custodia attenuata per madri detenute istituiti proprio da quella norma mentre si apriva alle case famiglia, seppur in maniera vaga. Gli Icam sono cinque lungo la penisola e il primo fu aperto proprio a Milano nel 2007, spostando all’esterno di San Vittore la sezione nido, per volontà dell’allora direttore del carcere Luigi Pagano. Si trova in un ex struttura della provincia, le operatrici sono pagate dal comune ed è integrato con tutta una serie di servizi circostanti. Ma nonostante gli addetti ai lavori in città lo definiscano “un’eccellenza” rimane carcere, anche se attenuato, con all’interno dei bambini.

Perché le case-famiglia sono solo due in tutta Italia e sostenute da donazioni private? “C’è la contraddizione di una legge che apre alla case-famiglia ma non garantisce copertura finanziaria – spiega Andrea Tollis, direttore di Ciao Onlus –. Mentre per gli Icam erano stati stanziati milioni di euro. Noi abbiamo aperto perché già lo facevamo in precedenza”. Si tratta di “una crepa che si vuole sottacere: gli ultimi eventi eclatanti come quello di Rebibbia la mostrano tutta e dispiace perché proprio queste tragedie mettono i ministri davanti alla realtà. I bambini in carcere non possono stare e contemporaneamente hanno diritto a stare con la propria madre”. “Le madri e i bambini – conclude Tollis – sono l’occasione per riflettere sul senso della pena: queste donne hanno spesso disturbi psicologici, bisogna farsi carico di questo aspetto. Il reato non è il principale problema mentre lo sono le situazioni psichiche, le violenze e gli abusi subito in passato. È preminente l’interesse del fanciullo e scontare la pena all’esterno” (Francesco Floris)

Da redattoresociale


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