Un anno fa, di questi tempi 600mila profughi Rohingya attraversavano il confine con il Bangladesh, cercando rifugio e portandosi dietro oltre alle loro povere cose dentro, racconti di un orrore visto e subito in prima persona.
Sulla base di quelle testimonianze le ONG e le Nazioni Uniti costruiranno rapporti dettagli che oggi ci fanno concludere che i Rohingya, minoranza mussulmana dell’ex-Brimania, sono scappati da una sistematica pulizia etnica che ha raggiunto livelli da genocido.
Quello che mancava e a tutt’oggi manca, era un racconto sul campo, da quella provincia del Rakhine dove da sempre vive “la minoranza etnica più perseguitata del mondo”. Mancava e manca per via della censura rigidissima del regime ex-birmano ma anche per il rifiuto culturale della maggioranza buddista rispetto alla questione-Rohingya, parola che non esiste, per esempio, nel dizionario ufficiale, vissuta come una provocazione di quelli che sono considerati cone immigrati illegali e a cui da oltre 30 anni è stata tolta la cittadinanza.
Per questo alcuni mesi dopo, a novembre (in quelle settimane io mi trovavo dall’altra parte del confine in Bangladesh, nei campi profughi) due giornalisti della Reuters Wa Lone e Kyaw Soe Oo inforcano la loro moto e di sera si dirigono verso il Rakhine.
Faranno poca strada, finiranno in carcere dopo essere stati fermati ad un posto di blocco lasciata la capitale.
Sono cittadini del Myanmar, pur lavorando per la più grande agenzia di stampa del mondo, la loro detenzione fa poco scalpore, viene rapidamente dimenticata anche perchè relativa e connessa ad una crisi come quella dei Rohingya, della quale il mondo mai ha voluto davvero occuparsi.
Oggi Wa Lone e Kyaw Soe Oo sono stati condannati da un tribunale birmano a sette anni di carcere, ufficialmente per possesso di documenti segreti, sulla base di una legge di era coloniale.
Il Myanmar è in un difficile percorso di transizione verso la democrazia, traguardo per ora molto lontano dopo anni di dittatura militare. Aung San Su Ki, trasformata dal mondo in un’icona di libertà, con la crisi dei Rohingya ha dimostrato che la sua leggenda non tiene il passo della realtà quando si tratta di ricoprire alte cariche pubbliche.
Il regime vuole poi cancellare ogni traccia di quel genocidio, perché ormai l’Onu spinge per un processo internazionale: sarebbe un segnale per tutti i carnefici del mondo.
La liberazione di Wa Lone e Kyaw Soe Oo è una battaglia non solo per la loro vita ma anche per mettere sotto pressione un Paese che se vuole entrare nel circuito del business occidentale – vero obiettivo della transizione post-giunta militare – deve decidersi a pagare il prezzo, sicuramente “fastidioso” ma necessario, di quella cosa chiamata democrazia.