Apprendendo grossolanamente la teoria di Brennan sull’epistocrazia e la sua classificazione dei cittadini-elettori è facile incappare in un sentimento/risentimento molto ostile. In effetti è proprio quello che è successo, negli Stati Uniti prima e anche in Italia poi. Il che, per inciso, non fa che confermare la teoria stessa di Brennan. È innegabile infatti che in Usa, come in Italia, la categoria più ampia di cittadini è composta dai così definiti hooligan. Basta leggere i giornali, i blog degli opinionisti, i post e i commenti sui vari social, ascoltare i discorsi della gente per strada, nei bar… per trovarne conferma. Parimenti innegabile è il fatto che alla categoria dei vulcaniani, in Usa come in Italia, appartengono solo una sparuta quantità di cittadini. Il che non significa che questi siano ricchi, benestanti, bianchi… neanche Jason Brennan lo pensa.
Esce in prima edizione a febbraio 2018 per Luiss University Press Contro la democrazia di Jason Brennan, con la prefazione di Sabino Cassese e un saggio introduttivo di Raffaele de Mucci, nella versione tradotta da Rosamaria Bitetti e Federico Morganti del libro originariamente pubblicato negli Stati Uniti d’America nel 2016 con il titolo Against Democracy da Princeton University Press.
Brennan suddivide i cittadini in tre categorie: gli hobbit, che hanno poco o nessun interesse per la politica e livelli molto bassi di conoscenza politica; gli hooligan, portati a sapere più degli hobbit ma fortemente distorti nella valutazione delle informazioni, con una spiccata tendenza a respingere tutte le tesi opposte alle proprie; i vulcaniani che combinano una vasta conoscenza e una buona raffinatezza analitica con un’ampia apertura mentale. Invece di agire come «cercatori di verità», gli elettori si comportano come «fan politici», facendo il tifo per una o per l’opposta squadra al pari dei tifosi sportivi. «L’ignoranza e la polarizzazione degli elettori li lasciano in balìa di politici senza scrupoli, ideologi e gruppi di interesse». Un analfabetismo politico e istituzionale che si trascina fin dalla gioventù. Basta ascoltare i giovani alle prese con le loro prime visite ai seggi elettorali o anche solo nelle discussioni politiche che diventano, inevitabilmente, meri attacchi e contrattacchi partitici. Come gli adulti del resto. La scelta di chi deve rappresentare i cittadini in Parlamento e in tutti gli altri organi ed enti rappresentativi non può e non dovrebbe mai essere motivata dalle sole ideologie o, peggio, sul pregiudizio di chi ne professa di diverse. Le scelte dei rappresentanti eletti si riflettono poi, inevitabilmente, su tutta la cittadinanza e sarebbe quindi opportuno iniziare a selezionare i governanti sulla base di progetti concreti per la collettività.
«Se ci rifiutiamo di tollerare una pratica medica o il lavoro dell’idraulico privi di conoscenza e competenza, dovremmo trattare con lo stesso metro il votare inconsapevolmente». Brennan sottolinea come il voto non sia semplicemente una scelta individuale ma «l’esercizio di un potere sugli altri» che dovrebbe essere sempre utilizzato in modo responsabile non fosse altro appunto perché le scelte politiche ricadono su tutti i cittadini indistintamente.
Coloro che si astengono «sono mediamente hobbit», mentre gli elettori «sono, in media, hooligan». «Il problema è che molte teorie filosofiche sulla democrazia presumono che i cittadini si comportino come vulcaniani».
Negli Stati Uniti gli immigrati regolari che non superano un test di educazione civica non hanno il permesso di andare a votare. Il medesimo test che, per Jason Brennan, «la maggior parte della popolazione di origine americana fallirebbe». Ci sono buone possibilità che accadrebbe anche in Italia. L’elettore medio, «è male informato o ignorante su informazioni politiche di base», e sa ancora meno su argomenti che richiedono «nozioni di scienze sociali più avanzate».
Lo scopo di Jason Brennan nello scrivere un libro sull’epistocrazia non sembra quello di avallare questo tipo di governo, piuttosto quello sottolineato da Raffaele de Mucci, ovvero essere «come una roccia precipitata in un immenso specchio d’acqua che altrimenti correrebbe il rischio di diventare una palude stagnante». L’autore si dichiara al contempo un critico e un fan della democrazia, la quale sappiamo avere «difetti sistemici», e per questo motivo bisognerebbe «essere aperti all’idea di studiare e sperimentare nuove alternative». Nuove forme di governance che, riuscendo egualmente o anche meglio a garantire le libertà economiche e soprattutto civili che promette la democrazia, offrano la possibilità di valorizzare competenze e conoscenze a discapito, finalmente, di opportunismo e corruzione. In buona sostanza, il fulcro del ragionamento di Brennan sta nella considerazione che la democrazia altro non è che uno strumento, «se riuscissimo a trovarne uno migliore, allora dovremmo sentirci liberi di utilizzarlo».
Gli individui decidono per sé stessi sulla base dei loro incentivi e interessi individuali. «Acquisire informazione ha un costo», richiede tempo e sforzi che potrebbero essere impiegati «per promuovere altri nostri obiettivi». Gli economisti chiamano questo fenomeno «ignoranza razionale». Razionalmente infatti si preferisce dedicarsi ad altro. Le politiche che le persone difendono però sono strettamente correlate a ciò che esse sanno.
In politica, come del resto in quasi tutti gli altri contesti, «soffriamo l’in-group/out-group bias», o altrimenti detto «favoritismo di gruppo». Siamo inclini cioè a fare gruppo e a identificarci fortemente con esso. Tendiamo a sviluppare animosità verso gli altri gruppi, anche laddove non ce ne sarebbe motivo. Abbiamo il pregiudizio di assumere che il nostro gruppo sia buono e giusto e che i membri degli altri gruppi siano cattivi, stupidi e ingiusti. «La nostra dedizione al gruppo può spesso scavalcare il nostro impegno verso la verità e la morale», tendendo ad accettare le prove che supportano le nostre posizioni precedenti e a rifiutare o ignorare le prove che le smentiscono. «Il nostro tribalismo politico si riversa sul nostro comportamento al di fuori della politica, corrompendolo».
Esemplare a tal proposito l’esperimento condotto da Shanto Iyengar e Sean Westwood riportato nel testo. È stato chiesto a mille soggetti di valutare i curricula di potenziali candidati di cui era stato evidenziato l’orientamento politico. «I risultati sono deprimenti: l’80.4% dei soggetti democratici sceglie di dare lavoro al candidato democratico, mentre il 69.2% dei soggetti repubblicani sceglie il repubblicano». I due ricercatori hanno verificato che «i meriti del candidato non hanno alcun effetto significativo sulla selezione del vincitore». Non si può che condividere l’opinione di Brennan quando afferma che «questo è un comportamento irresponsabile, corrotto».
Si tende a vedere gli avversari politici come «stupidi e malvagi» anziché, semplicemente, come «persone ragionevolmente in disaccordo». Se vogliamo che la gente guardi ai propri concittadini come amici, come persone impegnate in un’impresa cooperativa volta a ottenere benefici reciproci, e non come nemici, «dobbiamo desiderare che stia il più possibile alla larga dalla politica», o almeno dalla politica così com’è attualmente intesa.
Informazione, documentazione, ricerca. Interrogarsi sulle cose, sui fatti, sui problemi. Cercare soluzioni, alternative. È questa l’evoluzione che sembra indicare Brennan, il quale ammette che, più volte, si è trovato a ricredersi, a cambiare opinione, ad abbracciare teorie che mai avrebbe pensato di prendere in considerazione. In fondo è sempre lo spirito critico, unitamente alle conoscenze e a una sana curiosità, che hanno prodotto o condotto alle nuove scoperte in tutti i campi del sapere, preludio imprescindibile alle piccole e grandi rivoluzioni.
Emerge dalla lettura di Contro la democrazia di Jason Brennan non tanto la volontà dell’autore di condurre la ristretta cerchia dei vulcaniani al governo del Paese, quanto piuttosto quella di stimolare azioni e progetti che rendano hobbit e hooligan meno tali e quanto più vulcaniani possibile. In fondo, come sosteneva Herbert Spencer e come ricorda lo stesso Brennan: «un uomo non è meno schiavo se, ogni certo numero di anni, gli si permette di scegliersi un nuovo padrone».