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Le storie degli altri

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Chi fugge da un luogo pericoloso, dalla guerra, dalla pulizia etnica, da una faida tribale, dalla persecuzione etnico-religiosa, crea una distanza fisica dal suo passato ma è destinato a portasi dietro la propria storia, per sempre, anche se riuscirà “altrove” a ricostruire per sé un’apparente dimensione di vita.
La diffidenza, l’ignoranza e le generalizzazioni (di ogni segno, comprese quelle sull’accoglienza “esibita”) ci impediscono di capire le storie di chi fugge e di comprendere come il suo passato, troppo spesso, sia destinato a tornare nel presente perchè chi se ne è allontanato, l’ha potuto fare solo in termini di coordinate geografiche.
Si tratti di un parente ammalato, di un amico in pericolo, di un’estorsione, di un ricatto o della richiesta di un favore a cui non puoi opporti, il passato ritorna sempre o quasi, è statistico ; sempre o quasi attraverso quei cari che ti sei lasciato alle spalle e che ti hanno aiutato a fuggire.
Presentato oggi alla stampa alla Casa del Cinema (dal 20/9 nelle sale), il film di Costanza Quatriglio “Sembra mio figlio” ha il merito di aprire un varco nella barriera “invisibile” che separa noi dalle storie di rifugiati e migranti. Ha il merito di mostrarci uno spaccato che è specifico, dettagliato, individuale: una storia vera, di certo verosimile ma non per questo “universalizzabile”, categoria che , in un modo o nell’altro, finisce sempre per sminuire il dramma del singolo.

Il ritorno a casa, per fare i conti con il proprio destino, è quello di due fratelli afghani ed avviene quando sono ormai inseriti nella società italiana (verrebbe da dire integrati, se non fosse che l’unica figura non afghana con cui dialogano è quella di una rifugiata dell’ex-Yugoslavia). Un risultato raggiunto dopo immani sofferenze e un viaggio indescrivibile compiuto quando erano “minori non accompagnati” – come recita il freddo linguaggio della cooperazione internazionale.

La Quatriglio si concentra su uno spaccato del dramma afghano, quello degli hazara: gli eredi di Gengis Khan, in un Paese che è da sempre crocevia d’Asia (e del mondo) e dove ancora vivono anche gli eredi di Alessandro il Grande, come di altri conquistatori. Gli hazara non hanno solo tratti somatici mongoli che li rendono riconoscibili in ogni parte del Paese ma sono anche sciiti – quindi infedeli nella lettura sunnita dell’Islam. Il loro essere minoranza etnica e religiosa (aspetto quest’ultimo sfumato nel film della regista italiana) contribuisce a fare in modo che siano “paria”, ultimi tra gli ultimi della società afghana. Ma quello di un Afghanistan dove le etnie sono geograficamente separate è solo un mito, ed è così che la fuga degli hazara verso l’Iran e l’Europa parte proprio dalle provincie dove è più forte la presenza pashtun e tagika.
Il film della Quatriglio è intimo ma – per fortuna – non intimista, riesce a mantenere in equilibrio i due registri della storia personale e del contesto storico-politico. Ed è un bene perché non piega il primo a beneficio del secondo nè viceversa. I sottintesi sono tanti, a volte troppi – si da per scontato che qualcuno sappia di quella guerra lontana e ignorata dai media quanto dalla politica italiana e occidentale. La speranza è che l’enfasi posta sulle vicende dei due fratelli sappiano spinger il pubblico, che esce dalla sala, a volerne saperne di più.
I primi e primissimi piani, le inquadrature di relazione tra i soggetti in dialogo e in ascolto non sono mai soffocanti ma aprono sempre una riflessione sulle rughe di quei ragazzi che sembrano (e forse sono già) vecchi. Straordinaria l’immagine del fratello maggiore che guarda – attraverso lo “schermo” di un finestrino – lo spettacolo dei fuochi d’artificio con il dubbio stampato sul viso terrorizzato: come può l’equivalente dei proiettili traccianti e delle fiammate di fosforo bianco essere utilizzato per far festa?

Un’ultima riflessione sulla location: nella sua parte oltre-confine, il film della Quatriglio non è girato in Afghanistan ma in Iran, questo lo rendo forse una delle massime approssimazioni al paesaggio afghano viste sin’ora sullo schermo (gli americani sono nell’impossibilità di girare in territorio iraniano). Le gole rocciose assomigliano alla strada da Kabul a Jalalabad, le fosse sembrano scavate sullo sfondo dei monti verso Bagram, il panorama di “hazara town” non è di certo Quetta ma pur ricorda una certa parte di dash-e-bache.
Il quadro c’è e – ripeto – è forse la massima approssimazione possibile. Quello che manca però – e lo dico con nostalgia – è la luce dell’altopiano asiatico, quel sole che riesce a dipingere d’oro ogni angolo di miseria umana e di fango, a farti respirare l’assenza di confini della steppa, a spingerti a pensare quanto bello sarà il panorama dalla corona di vette che ci circonda, a farti dimenticare la morte immanente. Ma questa è un’altra storia, forse altrettanto personale e intima di quella che Costanza racconta.


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