E’ diventato un regista… dipingendo. Si svela così Matteo Garrone in una lunga intervista su CineCritica[1] cui abbiamo in parte attinto per questa riflessione su “Dogman” (2018), il suo ultimo lungometraggio.
Una passione precoce per i pennelli quella del regista romano, classe 1968, e un’altra ancora, assai più lontana nel tempo, per il disegno e le storie a fumetti. Poi, adolescente, Garrone comincia a dipingere con intenzioni più serie, prende consapevolezza per quest’arte e fissa i rapporti con “la luce, i colori, l’inquadratura, ma anche la sintesi, l’essenzialità. Con la pittura ci si abitua a raccontare una situazione, addirittura una storia, attraverso una sola immagine.” Ecco perché nei suoi film “la scelta di cosa e come inquadrare deve essere semplice, funzionale, non deve distrarre chi guarda, o peggio, allontanare dalla storia[2].”
Poi, irresistibile, è arrivato la passione per il cinema, mai dimentico delle suggestioni della pittura: Goya per “Il racconto dei racconti”, i Macchiaioli per “Pinocchio” il suo ultimo progetto, ancora in fieri. Ma dentro Matteo Garrone si muove anche il teatro: un lascito dell’educazione artistica che il regista ha ricevuto dal padre Mario, scrittore e critico, attento al teatro alternativo romano, quello delle compagnie di ricerca, a quell’ambiente – soprattutto legato al “Beat 72” – che poi verrà omaggiato nel nostalgico e forse acerbo “Estate romana” (2000): “un film – ricorda lo stesso Garrone – molto libero, in certi punti anche sgrammaticato, ma fresco[3].”
E qui trasversalmente emerge anche il rapporto con la scrittura e la letteratura. Per esempio, in quella che viene considerata la sua trilogia noir -“L’imbalsamatore” (2002), “Primo Amore” (2005) e “Dogman” (2018) – Garrone attinge rispettivamente a “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini[4], al Vincenzo Cerami dei “Fattacci[5]” e, per “Dogman”, alle suggestioni delle dostoevskijane “Memorie del sottosuolo[6]”. E’ certo più diretto il rapporto con Saviano per “Gomorra” (2008), ma già nel 1998, aveva girato insieme a Massimo Gaudioso e a Fabio Nunziata, “Un caso di forza maggiore” (1998), ispirato ad uno dei dieci micro-romanzi della “Vita intensa” (1920) di Massimo Bontempelli. E allora non è un caso poter rintracciare nel suo cinema una fortissima componente di realismo magico, evidente non solo all’esordio o ne “Il racconto dei racconti” (2015) tratto dal “Cuntu” di Giambattista Basile (i cui contenuti erano già di per sé fiabeschi) quanto, per esempio, in “Reality” (2012) e appunto in “Dogman” il cui protagonista, Marcello, è stato pensato e costruito, letteralmente, sul modello di Buster Keaton. Le prime sequenze del film, infatti, alludono a una comica muta, con il protagonista che tenta di lavare, con esiti tragicomici, un gigantesco mastino.
Forse un po’ troppo frettolosamente “Dogman” (2018) è stato definito un western-metropolitano. E’ certamente vero che nel film è descritto un ambiente archetipico nel quale si muovono storie e destini interamente umani, i cui “sentimenti – sottolinea ancora Garrone – sono spinti all’estremo[7]”.
Ma si muove in un contesto atipico per il film di genere a cui lo si vuole ascrivere: non bastano le ambientazioni tipicamente meridionali – le reiette periferie marittime di Castel Volturno, per giunta autunnali e notturne, in un clima di perenne déluge, o le tipizzazioni di cattivi e malvagi – la cricca malavitosa che gravita in una infera sala-giochi e soprattutto Simone un brutale cocainomane, essere violento e amorale, regredito ad una ferocia primitiva, scheggia impazzita del quartiere – perché a parere nostro la pellicola si colloca in un contesto quasi surreale, inconscio addirittura, che mette in evidenza le spinte primordiali che stanno alla base delle azioni dei protagonisti: uomini circoscritti nelle loro gabbie esistenziali e reali, senza legami autentici se non quelli dettati dalla reciproca convenienza; senza relazioni, se non quelle dirette al soddisfacimento materiale e fisico: tesissime macchine di carne che si azzuffano senza sosta e contro cui si staglia, al contrario la solenne ed elegante postura dei cani – spesso in gabbia, ma dotati di uno sguardo stoico, sdegnoso quasi – specchio della reale condizione dei loro padroni: dallo ieratico alano arlecchino al minuscolo chihuahua della scena-cult del freezer fino al meticcio con cui il protagonista condivide la sua scarsa cena. Un mondo cieco: lo stesso spazio in cui quasi sempre si muove Marcello – anche le scene delle immersioni subacquee con la figlia, illusoria parentesi di libertà e di fuga, rinviano ad un ambiente chiuso, delimitato – è un non-luogo. Cioè è tutti i luoghi.
Solo Marcello – piccolo ricettatore e spacciatore ‘personale’ di Simone, esponente di una mite delinquenza proletaria nel suburbio dove gestisce una toilette per cani – pur appartenendo verghianamente a quel mondo, è l’unico a mostrare ancora un barlume di umanità, un bisogno reale di legami affettivi: l’amore tenerissimo per la figlioletta così come per i suoi “clienti” ci paiono significativi. Soggiace però alla forza selvaggia di Simone (che lo picchia ripetutamente) e all’attrazione che questi esercita su di lui. Eppure tenta di sfuggire alla spirale del richiamo del male. Allo stesso tempo vorrebbe occupare un ruolo all’interno di quel minuscolo universo, essere accettato: tant’è che sia la vendetta con cui presume di lavare l’onta della rapina ai danni degli amici che lo stesso tentativo di curare Simone, ormai privo di vita, (Edoardo Pesce quasi irriconoscibile dopo il trucco), sono azioni – pur contraddittorie – che vanno in un’unica direzione: quella del riscatto personale. In questo tentativo di espiazione emerge la grandezza di Marcello antieroe (che Marcello Fonte, premio a Cannes 2018 per la migliore interpretazione maschile, incarna, tra fisicità e sguardo, in modo assolutamente perfetto): “Marcello – sottolinea anzi Garrone – ha il volto antico di un’Italia che sta scomparendo. Una faccia in cui c’è povertà, ingenuità, allegria, dolcezza. Una faccia che ormai hanno solo gli immigrati[8]”.
Con uno stile asciutto, essenziale, quasi iper-realista, Garrone racconta dunque con “Dogman” una storia semplice partendo dall’escamotage della cronaca: da quel Pietro De Negri, il “canaro” della Magliana, che nel 1988 seviziò e uccise il complice di una rapina per la quale lui solo aveva scontato la galera. Ma la cronaca è appunto pretesto per una sostanziale sottrazione dalla realtà: come ha notato acutamente Francesco Crispino – “Dogman”, erroneamente “ascritto al filone neo-realista, è invece animato da un naturalismo di matrice teatrale (in cui si riflette l’eredità paterna) sempre sottoposto a una formalizzazione in chiave fotografico-compositiva (in cui si riflette quella della madre, Donatella Rimoldi, n.d.r.)[9]”. Lo stesso Crispino inoltre individua – secondo i dettami aristotelici della Poetica – almeno tre elementi formali del film: il riferimento alla tragedia classica greca, il tema della vendetta e quello della follia (ad essa legati) e la sostanziale unità di luogo.
E in “Dogman” la tragedia si erge al di là della cronaca riducendosi per scelta a storia minima, personale, “piccola piccola”. Tragicamente, nemmeno Marcello può sfuggire all’ambiente in cui si è forgiato e dal quale vorrebbe essere riconosciuto: ogni accostamento, per esempio, al tema della vendetta di “Un borghese piccolo piccolo” di Monicelli farebbe deragliare una lettura di “Dogman” che non è sociologica ma esistenziale, metafisica, legata al milieu interiore di uno sconfitto, di un “vinto”, ma capace di esprimere una struggente, dolorosa tenerezza.
[1] CineCritica, Periodico di cultura cinematografica a cura del SNCCI, n° 90/91 aprile-settembre 2018.
[2] Ibidem, in: Visionario e il fantastico: il lato oscuro del reale, intervista a cura di Franco Montini e Piero Spila, pag. 10-11
[3] Ibidem, pag.10
[4] M. Mariolini, Il cacciatore di anoressiche, Edicom, 1997
[5] V. Cerami, Fattacci, Einaudi, Torino, 1997
[6] Cfr. CineCritica, cit., Nello spazio della tragediadi Francesco Crispino, pag. 18-19
[7] Ibidem, cit., pag. 7
[8]CineCritica, cit., pag. 13
[9]Ibidem cit., in Nello spazio della tragedia, di F. Crispino, pag. 18