1952-1963 è l’arco di tempo indicato come quello in cui nel nostro Paese tutto è cambiato. Il boom economico, attivato da un sorprendente sviluppo industriale, significò il passaggio definitivo dell’Italia da paese agricolo a paese industrializzato. Le conseguenze furono inimmaginabili. Nel giro di quei pochi anni l’Italia mutò i suoi connotati culturali, relazionali e comportamentali, come mai era avvenuto da secoli. Le strade da sterrate divennero autostrade, e l’asfalto, che copriva ogni memoria dell’antica civiltà contadina, vide l’incedere di passi sempre più frettolosi e frenetici di cittadini inurbati dalle campagne, pronti a riempire industrie e supermercati, così come il Capitale ordinava di fare.
Il benessere significò automobili e, dunque, facilità nei movimenti e nei rapporti interpersonali, sempre più segnati da svolte individuali liberatrici e solitudini affollate. L’essere si fuse definitivamente all’avere, in una indistinzione segnata dalla prevalenza degli oggetti nella vita quotidiana, status symbol rassicuranti in un mondo dove le incertezze umane cominciavano ad essere bandite. Le immagini mutarono anch’esse. La rappresentazione elettronica della realtà, la televisione, soppiantò definitivamente l’icona classica che aveva avuto nel cinema il suo ultimo felice approdo. La “società dello spettacolo” di Guy Debord si sovrappose alla realtà facendola “scomparire”.
D’altra parte il panorama da rappresentare era drasticamente mutato. Agli spazi infiniti si era sovrapposta la prospettiva, altrettanto infinita, dell’acciaio e del cemento. Da questo momento, il rapporto uomo-natura, da sempre declinato al presente, cominciò a frequentare i luoghi della memoria che, con il passare degli anni, si sono fatti sempre più dolorosi e persino inaccessibili. Fin da subito il cinema si è fatto carico di raccontare questo rapporto all’improvviso interrotto e oggi irrecuperabile. Autori tanto diversi tra di loro nel raccontare questa tragica mutazione genetica, come Pasolini, Risi e Antonioni, si sono trovati accomunati, quasi inevitabilmente, nel mettere in scena la natura come denominatore comune e simbolo di questo cambiamento.
Ne “Il giovedì”, 1963, Dino Risi racconta di un padre che proprio quel giorno deve rivedere, dopo alcuni anni, il piccolo figlio, Robertino, cresciuto in Svizzera con la ex moglie secondo i ferrei dettami che l’alto lignaggio di questa impone. Per non sfigurare, papà Dino (evidente l’autobiografismo) cercherà di far credere al figlio di non essere da meno della madre, nascondendogli la propria condizione di fallito alla ricerca dell’occasione buona che non arriva mai, in piena coerenza con i principi illusori del self-made man funzionali alla logica capitalistica. Scoperto dal bambino, all’uomo non rimarrà che condividere l’amore che il figlio gli manifesta, anche in virtù di una carenza d’affetto frutto di una madre rigidamente formale. Il peregrinare di padre e figlio in una Roma annegata nel consumismo e dilaniata da una spietata competizione trova la giusta compensazione proprio nelle scene ambientate sui prati e nelle campagne circostanti la Capitale. Qui Robertino e papà Dino finiranno per conoscersi meglio, riuscendo perfino a ridere insieme per la prima volta. Emblematica la sequenza in cui i due finalmente trovano, dal vero e allegramente, la soluzione alla famosa e popolare querelle del contadino che deve attraversare il fiume evitando di mettere insieme sulla barca capra, cavolo e lupo. La vita semplice e lineare della campagna, con il contadino che fa salire nella realtà tutti nella barca insieme a lui, viene contrapposta, metaforicamente, al rompicapo tutto cittadino e modernista. Insomma, anche in Risi, come in Pasolini, è chiara l’insofferenza verso un mondo che si va allontanando dalle sue radici correndo precipitosamente verso il baratro delle identità perdute.
Antonioni già ne “L’avventura”, 1960, aveva inserito la natura come protagonista silente ma assoluta. La scomparsa della borghese Anna nell’ isolotto di Lisca Bianca, nelle Lipari, acquisisce la forte valenza simbolica di una classe incapace di intrecciare sentimenti veri, in contrasto con la verità di quei luoghi arcaici ed aspri, capaci di disvelare la falsità di chi non vi entra in sintonia.
Ancora fortemente metaforica è l’isola sarda di Budelli in “Deserto rosso”, capolavoro antonioniano del 1964. Giuliana, la protagonista, moglie infelice di un industriale, dopo un tentativo di suicidio prova a rientrare nella “logica” della realtà, ma non ci riesce. Aspira ad un mondo vero ma si scontra con il muro delle convenzioni borghesi, che costringono l’uomo ad una dolorosa incomunicabilità. E’ solo nella memoria della sua adolescenza che Giuliana ritrova la serenità perduta. In particolare, il racconto che ella fa al figlioletto di una ragazzina che si immerge nelle acque cristalline di un’isola incontaminata diventa metaforico del suo mondo oramai perduto, palesemente in contrasto con i veleni e i fumi inquinanti che lo spettatore ha visto precedentemente essere ormai l’habitat “naturale” della donna. Inquinamento fisico e inquinamento mentale, in una logica conseguenziale che Antonioni mette in campo in quello che è forse il suo film più teorico ed esplicativo del mondo uscito da una industrializzazione disumana.
E non è un caso che queste prodigiose convergenze parallele sulla natura siano state messe in campo da tre uomini, prima che tre artisti, che hanno conosciuto bene, per “privilegio” d’anagrafe, il mondo com’era prima che ci sfuggisse di mano. Come sappiamo l’arte viene sempre dopo. Prima c’è l’uomo, e ciò che vede.