Ieri pomeriggio un attacco terroristico ha colpito un centro sportivo situato a Dasht-e Barchi, una zona di Kabul abitata prevalentemente da Hazara. Una realtà quella del popolo Hazara e delle persecuzioni subite su cui è doveroso accendere i riflettori. Per questo pubblichiamo con piacere la riflessione di Basir Ahang, giornalista e poeta, e protagonista del film “Sembra mio figlio” di Costanza Quatriglio, (prodotto da Ascent Film con Rai Cinema e in uscita il prossimo 20 settembre) che è dedicato proprio al dramma del popolo Hazara
di Basir Ahang
Ieri pomeriggio un attacco terroristico ha colpito un centro sportivo situato a Dasht-e Barchi, una zona di Kabul abitata prevalentemente da Hazara. Erano le sei di sera e la sala del “Maywand Sport Club” era gremita di giovani intenti ad assistere ad un incontro di wrestling, quando all’improvviso un rumore di spari ha interrotto l’evento sportivo. All’entrata del club, un kamikaze ha ucciso la guardia del centro e dopo essere entrato si è fatto esplodere tra la folla.
Immediatamente decine di persone si sono apprestate a fornire soccorso e alcuni giornalisti sono accorsi per documentare l’accaduto. Come spesso già accaduto in passato tuttavia, i terroristi hanno atteso il loro arrivo per sferrare un altro attacco e mietere ancora più vittime. Un secondo kamikaze si è fatto esplodere tra soccorritori e giornalisti provocando 20 morti e almeno 70 feriti in un bilancio che sembra tuttavia destinato a salire. Due giornalisti rispettivamente di 23 e 28 anni, che lavoravano per Tolo News, importante emittente televisiva del paese, hanno perso la vita assieme agli altri. Uno di loro si chiamava Samim Faramarz e pochi giorni fa aveva affidato questo suo pensiero ai social media:
(Nella foto Basir Ahang sul set con la regista Costanza Quatriglio)
“In un’era di passività, finzione e violenza senza senso, a cosa dovremmo guardare con ammirazione? Ai leader corrotti che ci stanno trascinando in altri conflitti mentre si riempiono le tasche? A un Dio controverso che osserva il mondo intero sgretolarsi invano? Oppure a questo sistema democratico altamente sopravvalutato che sta già cadendo a pezzi? Per ora l’unica cosa che sappiamo di certo è che la lunga battaglia e la guerra nella nostra piccola parte di mondo, sono una diretta conseguenza di lotte per il potere e avidità. Forse (…) tutto ciò che possiamo fare è ricordare che la società non guadagna nulla se rimaniamo chiusi nei nostri piccoli mondi. Abbiamo bisogno di un pensiero universale. Dobbiamo comunicare e immaginare come gli altri, diversi da noi, stiano lottando e, anche solo per una volta, riuscire a metterci nei loro panni.”
In Afghanistan e nelle comunità della diaspora, è ormai diventato un rito comune: dopo ogni attentato ci si rivolge ai social media nell’intento di verificare che i propri amici stiano bene (l’applicazione di Facebook per segnalarsi salvi risulta in questo senso molto utile), condividere le notizie, i propri pensieri e soprattutto i propri sentimenti. Il messaggio più comune rimane comunque sempre questo:
“Cari amici e famigliari: per favore diteci che siete salvi”
Nessun posto è ormai sicuro in Afghanistan, eppure alcuni luoghi sono ancora più pericolosi di altri. Uno di questi è proprio la zona di Dasht-e Barchi a Kabul, dove in questi ultimi anni sono state attaccate scuole, moschee, centri elettorali ed ora anche un centro sportivo.
Il rischio di creare un ghetto nel quale la popolazione si racchiuda guardando con sospetto al mondo esterno, mentre viene lasciata in balia degli attacchi terroristici da parte di un Governo indifferente o incapace di difendere la popolazione, ricorda molto la situazione che gli Hazara vivono a Quetta in Pakistan, dove questa comunità ha trovato rifugio alcuni decenni fa per fuggire alle persecuzioni dell’emiro Abdur Rahman e alla pulizia etnica ad opera dei Talebani negli anni ‘90.
Come sempre l’attacco è stato rivendato dall’ISIS, eppure sono in molti ad avere dei dubbi circa la veridicità di quest’affermazione, in primo luogo perché l’ISIS è solito attribuirsi qualsiasi attacco mentre i Talebani cercano di evitare la responsabilità dei morti civili e in secondo luogo perché il loro numero e capacità sembrano essere sovrastimate. Molto più probabilmente i responsabili vanno ricercati nella Rete Haqqani, anch’essa parte del movimento dei Talebani, il cui quartier generale ha sede in Pakistan. Risulta tuttavia allo stato attuale molto difficile determinare i moventi e i responsabili di questi attacchi.
Neppure un mese fa, il 15 agosto, la comunità Hazara aveva seppellito 60 ragazzini uccisi da un kamikaze mentre si preparavano per l’esame di ammissione all’università, domani nuove fosse verranno scavate nello stesso cimitero, dove giacciono i corpi di centinaia di uomini, donne, e bambini. Nel frattempo tra i vivi e in particolar modo tra i giovani, la domanda che si sente ripetere più spesso in questo periodo è questa: sarò forse io il prossimo?