E’ morto Guido Ceronetti. Lo scrittore, drammaturgo, poeta, marionettista e critico, nato a Torino nel 1927, è morto a 92 anni nella sua casa di Cetona, in provincia di Siena.
Forse nessuno scrittore italiano di oggi è riuscito a stabilire un rapporto di complicità con i suoi lettori come Guido Ceronetti. Per anni la terza pagina della «Stampa» è diventata per molti una sorta di casella postale, dove si va a controllare ogni giorno se è arrivato un biglietto dal solito, generoso, estroso mittente. Di che cosa ci parlerà questa volta? Di Mosè o di Barbara Stanwyck, dell’avanspettacolo torinese o di Zola, di Goya o dell’andropausa, di Santa Caterina o di Santa Teresa, di Clemenceau o di Orazio? Ci parlerà di queste e di tante altre cose, ritornerà sui suoi temi, ne introdurrà di nuovi e disparati, ci racconterà qualche viaggio, qualche lettura, ci darà consigli su come fare il tè – e sarà, volta a volta, fedele e libertino, ma sempre roso dal «verme metafisico». Ceronetti, anima naturaliter gnostica, ama mescolarsi a tutto, perché a nulla appartiene, marionettista fantomatico, fondatore del Teatro dei Sensibili, che non c’è, ma è. Filologo e curioso, lettore di libri di ogni specie e insieme «lettore di strade, porte, vetrine, gente, cortili, insegne», trasforma l’articolo di giornale in giornale delle sue avventure. Il suo culto di devoto senza paramenti, ma con un dizionario sempre a portata di mano, è innanzitutto fondato sulla precisione della parola e dell’orecchio. Tutto – la letteratura o la storia o la filologia o la politica – è per lui ugualmente centrale, in quanto si riferisce a un unico centro che non ha nome. Così, con pari sicurezza, con pari vigore Ceronetti ci mostra il sovrapporsi di qualche austera parola latina di Spinoza e di un verso «incarnato» di Racine; o si addentra nelle viscere minerarie della «dannata, massiccia, cruciale seconda metà dell’Ottocento»; o colpisce la viltà del nostro mondo dinanzi al risucchio del «vuoto russo». Nelle sue prose parla chi ha lottato per anni con le radici semitiche, per trarne le uniche memorabili versioni dalla Bibbia che siano apparse in lingua italiana, ma parla anche il vincitore di «appassionanti gare di tango, in compagnia di torinesi straordinarie, migliori delle bonaerensi del quartiere di Evaristo Carriego». Imprese ormai del tutto improbabili – eppure Ceronetti le ha compiute, e questo ci incoraggia a salire sulla sua agile «canoa che risale i fiumi sterminati dei crimine e della morte», sulle cui sponde crescono le foreste della «vita apparente».
Ha sempre rivendicato i diritti della letteratura sulla cronaca, denunciando con estrema coerenza i segni di un progressivo imbarbarimento, in relazione a questo impegno di intransigente e colto moralista vanno intese le sue poesie (pubblicate in più volumi dal 1968 e poi riunite in Compassioni e disperazioni. Tutte le poesie 1946-1986, 1987), tra l’altro strettamente dipendenti da una attività di traduttore molto selettiva (Marziale, Catullo, Giovenale e, dalla Bibbia: Ecclesiaste, Cantico dei cantici, Giobbe, Isaia, Salmi). La stessa dimensione cupamente religiosa, propria dell’interprete di visioni e anatemi antico-testamentari, Ceronetti introduce nell’esercizio dell’ufficio saggistico: Difesa della luna (1971); La carta è stanca (1976); La Musa ulcerosa (1978); Un viaggio in Italia (1983); Albergo Italia (1985); L’occhiale malinconico (1988); Centoventuno pensieri del filosofo ignoto (2006) o nelle raccolte di aforismi e di ricordi: Il silenzio del corpo (1979); Pensieri del tè (1987); La pazienza dell’arrostito (1990); D. D. Deliri Disarmati (1993); La carta è stanca. Una scelta (2000); Piccolo inferno torinese (2003). Tra le sue opere più recenti vanno citate: Insetti senza frontiere (2009); In un amore felice. Romanzo in lingua italiana (2011); la raccolta di versi Sono fragile sparo poesia (2012); il libro di pensieri e riflessioni L’occhio del barbagianni (2014); Tragico tascabile (2015); Per le strade della vergine (2016); Messia (2017); Regie immaginarie (2018).