di Marialaura Di Biase, Maria Leone e Carolina Ruggeri
Il tema del riuso sociale dei beni confiscati è al centro del dibattito politico e mediatico degli ultimi tempi per quanto riguarda la gestione e i benefici che esso è in grado di ricavare per la comunità.
Se sul fronte del riuso degli immobili confiscati vi sono numerose esperienze condotte da organizzazioni appartenenti al cosiddetto Terzo Settore, che hanno mostrato che essi possono essere strumentali ad un nuovo modello di sviluppo per i territori sostenuto dall’economia sociale; sul fronte del riuso per fini sociali delle aziende confiscate c’è ancora molto da fare. I beni aziendali, infatti, sono caratterizzati dal tipo di relazione economica che le organizzazioni criminali hanno creato e rappresentano centri del potere economico e sociale delle famiglie mafiose, essendo la potenza economica che esse assicurano il cuore della pervasività e della loro forza.
In questi anni sono stati diversi gli interventi legislativi che hanno provato a generare condizioni più favorevoli al riuso sociale dei beni confiscati. Il Documento di Economia e Finanza del 2015 ha previsto una strategia nazionale volta alla valorizzazione dei beni e delle aziende confiscate alla criminalità organizzata ed al corretto funzionamento di un sistema di monitoraggio di tali beni.
In particolare, ha individuato le azioni necessarie per prevenire le situazioni di crisi delle aziende sequestrate e confiscate per salvaguardare i posti di lavoro e favorire la nascita di cooperative di dipendenti delle aziende e la promozione di contratti di rete per la legalità fra queste e aziende sane del made in Italy. Inoltre, con la legge di stabilità del 2016, sono stati stanziati 15 milioni di euro totali volti ad assicurare la continuità del credito bancario, gli interventi di ristrutturazione aziendale e la tutela dei livelli occupazionali.
Nel 2017 nuovi interventi legislativi hanno anche previsto la destinazione in via prioritaria delle aziende agli enti territoriali e alle associazioni. La riforma del codice antimafia, infatti, ha introdotto modifiche significative al procedimento di confisca delle aziende prevedendo strumenti volti a favorirne la continuazione come: tavoli di lavoro permanenti; supporto tecnico di soggetti qualificati e strumenti finanziari volti a facilitare la loro gestione.
Tuttavia, i diversi interventi legislativi da soli non bastano. E’ necessario, infatti, promuovere un diverso modello di presa in carico delle aziende confiscate, valorizzando il ruolo degli attori coinvolti nell’iter della loro gestione. Vanno costruite reti tra i diversi stakeholder in grado di rigenerare le relazioni criminali con le quali i clan malavitosi hanno sviluppato le aziende. Come è noto, le organizzazioni criminali creano propri reticoli sociali che usano per assoggettare i territori e la comunità locale al proprio dominio, sostituendosi allo Stato e generando un’economia deviata e soggetta alle proprie regole: l’economia criminale. Le imprese criminali, infatti, penetrano nel tessuto produttivo delle attività intervenendo sulle relazioni interne ed esterne all’impresa, come un agente di trasformazione sociale, scegliendo mercati specifici, dal settore delle energie rinnovabili, alla sanità, allo sport, ai settori più tradizionali dell’edilizia, dal movimento terra al ciclo del cemento e allo smaltimento dei rifiuti.
Per tali ragioni i diversi stakeholder deputati a recuperare questi beni – Agenzia Nazionale dei beni confiscati, Prefetture con i propri nuclei di supporto e, in particolare, gli amministratori giudiziari –, devono cooperare in sinergia per consentire di far superare alle aziende le difficoltà che nascono dal venir meno del vantaggio competitivo illecito che l’organizzazione criminale assicurava.
Quali obiettivi deve allora porsi la nuova gestione per abbattere i costi della legalità? Certamente salvaguardare il patrimonio aziendale, dimostrare un’attitudine ad una imprenditorialità dinamica, sviluppo di progettualità e sostenibilità dei programmi aziendali al fine di garantire sin da subito continuità al ciclo produttivo e la stabilità dei livelli occupazionali.
Ma accade spesso, invece, che nella maggior parte dei casi le aziende confiscate, ormai legalizzate, non riescono a sopravvivere in un mercato tradizionale nel quale, evidentemente, vanno ricostruite le loro relazioni sulla base di valori diversi e per i quali puntare alla mera massimizzazione del profitto non è sufficiente. Va creata con la sinergia di tutti un diverso sistema relazionale che l’economia sociale può contribuire a far nascere e sviluppare.
I dati della Corte dei Conti del 2016 mostrano, purtroppo, che la maggior parte delle aziende confiscate cessa l’attività nei primi anni successivi al sequestro e non arriva nemmeno alla confisca di primo grado. Il 5% viene venduta o data in affitto a terzi il che comporta, a volte per lo Stato, perderne le tracce. In altri casi si permette, addirittura, che l’azienda rientri nelle mani della medesima organizzazione criminale alla quale era stata preventivamente sottratta attraverso la vendita. Solamente lo 0,4% (circa 10 aziende in Italia) viene assegnato a cooperative di ex dipendenti (con una operazione di working buyout), di cui le esperienze più virtuose sono quelle della Calcestruzzi Ericina Libera con sede a Trapani (Agenzia per la Coesione Territoriale 2016) e il centro Olimpo di Mondello. Due esempi che mostrano che è possibile riusare per finalità sociali e istituzionali anche le aziende confiscate quando si rigenerano su principi diversi le relazioni commerciali ed imprenditoriali su cui si basa l’efficienza dell’azienda.
Diversi sono i modelli che possono sostenere le aziende confiscate ma a nostro avviso è necessario rispettare almeno queste tre fasi:
1. trasformazione delle aziende confiscate in imprese sociali, grazie ai vantaggi che queste creano, tramite un sistema di working buyout;
2. messa in rete di queste imprese riconvertite per il raggiungimento di finalità sociali;
3. creazione di filiere economico – produttive in grado di inserire i beni aziendali differenziati per settore.
Il processo di working buyout potrebbe guidare la trasformazione delle imprese criminali in forme di imprese sociali, come la cooperativa sociale, che appare al giorno d’oggi, il soggetto giuridico più agevole e più democratico per coinvolgere un numero maggiore di portatori d’interesse e sostenere su basi diverse l’impresa.
L’inserimento delle imprese riconvertite per finalità sociali in una White List, contenente tutte le imprese nelle quali è stato intrapreso un percorso di legalizzazione e di cui lo Stato sarebbe legittimo e primario interlocutore, soprattutto in caso di appalti e opere pubbliche, le rafforzerebbe garantendone la creazione di mercati di sbocco.
Questo sistema non si porrebbe in contrasto con la normativa antitrust e con le disposizioni della Comunità Europea essendo le aziende stesse proprietà statale e soggette alla normativa delle imprese sociali che hanno quale mission e requisito quello di perseguire l’interesse collettivo.
A loro volta, le imprese, potrebbero essere inserite in delle filiere produttive, anche per ridurre i tempi di richiesta delle necessarie autorizzazioni in materia di anticorruzione. Questo network creerebbe attorno ai loro stakeholders, uno sviluppo economico virtuoso. La messa in rete, e quindi la possibilità di avere anche istituzioni e professionisti di alto profilo e con competenze eterogenee, permetterebbe anche di ridurre l’asimmetria informativa degli amministratori giudiziari e dei giudici delegati chiamati a gestire realtà aziendali molto complesse. La già esistente piattaforma dell’Agenzia Nazionale potrebbe, in quest’ottica, essere arricchita dei dati qualitativi e quantitativi inerenti i beni aziendali.
Per rendere concreta questa possibilità è necessario ribaltare i paradigmi economici, di certo una proposta non semplice e immediata, perché chiedere alle istituzioni e soprattutto alle aziende di cooperare è cosa non facile, considerato che l’attuale modello di sviluppo economico riconcorre la massimizzazione del profitto sulla base della competizione tra le imprese come valore a cui ispirarsi per risultare efficienti.
Gli esempi in Italia di creazioni di reti di imprese, come La Res (Rete di Economia Sociale) e il Consorzio Libera Terra, hanno mostrato che lo stare insieme cooperando e collaborando per il perseguimento di obiettivi di interesse generale, genera vantaggi che individualmente non avrebbero mai raggiunto.
Un percorso è stato tracciato anche nell’ambito del riuso sociale delle aziende confiscate, ora esso va rafforzato ed esteso per fare in modo che questo immenso patrimonio non si depauperi con il tempo e rappresenti un ulteriore costo per la comunità.