A PROPOSITO DI PACE: A CHE PUNTO E’ IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE?
Tra una strage e l’altra lungo il confine della Striscia di Gaza, ma per il resto con il minor clamore possibile, affinché nulla scalfisca la fitta trama di indifferenza che consente loro di ordire i disegni che hanno in mente, Netanyahu e Trunp stanno attuando, passo dopo passo, il progetto comune di uno Stato militarmente assai forte che copra pressoché tutta la Palestina storica. Il primo per realizzare il Grande Israele, uno Stato confessionale solo per ebrei; il secondo per avere un fedele avamposto dell’imperialismo occidentale che fronteggi il mondo arabo in un’area strategicamente vitale per l’economia – e non solo – delle potenze occidentali.
Con i nomi dei due leaders in questo articolo si indicano ovviamente i due schieramenti di forze, con i relativi coaguli di interessi e ventagli di posizioni politico-culturali, a cui i due governanti danno ora l’impronta delle loro personalità.
L’obiettivo di Trump è perfettamente allineato ai propositi che aveva la Corona Britannica quando, sul finire del primo conflitto mondiale ed in vista della dissoluzione dell’Impero Ottomano e della conseguente spartizione con la Francia delle terre e dei popoli da esso dominati, spronò il movimento sionista a scegliere la Palestina come sede di un costruendo “focolare ebraico”. Non si poteva perdere l’occasione per rafforzare il controllo su di un’area che conteneva e contiene tuttora due fattori importantissimi per l’economia delle potenze occidentali: grandissime riserve di risorse energetiche e la via di transito dal Mar Rosso al Mediterraneo. Tanto importanti che nel 1956 Gran Bretagna e Francia non esitarono ad intervenire militarmente, non a caso insieme ad Israele, quando l’Egitto del colonnello Nasser provò a nazionalizzare il Canale di Suez. Così come nel gennaio del 1991, per riportare nei ranghi l’Iraq di Saddam Hussein che cinque mesi prima aveva invaso il Kuwait, George Bush non tentennò nello scatenare la Guerra del Golfo le cui devastanti conseguenze sono arrivate ai giorni nostri.
Se il progetto di Trump è sostanzialmente allineato alle finalità originarie della Gran Bretagna, il che dimostra che con il passaggio dalla bandiera Union Jack a quella a stelle e strisce le mire dell’imperialismo sullo scacchiere mediorientale non sono mutate, l’obiettivo di Netanyahu non è del tutto in linea con la prospettiva indicata dalla Corono Britannica con la Dichiarazione di Balfour. In essa infatti, nel comunicare che <Il governo di Sua Maestà vede(va) con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico> si puntualizzava che <nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina>. Che questa ingiunzione sia stata assolutamente disattesa tanto nei fatti quanto nelle enunciazioni dei e delle più eminenti esponenti della politica israeliana non ha bisogno di dimostrazione. Ma c’è di più. Il 19 Luglio scorso il Parlamento Israeliano ha approvato una legge che, ancorché Israele per restar privo di vincoli non abbia mai adottato una Costituzione può dirsi di rango costituzionale, che definisce Israele <Stato della Nazione Ebraica> e dichiara <l’estensione degli insediamenti dei coloni di interesse nazionale>. Due dichiarazioni di eccezionale gravità: la prima, perché limita l’appartenenza allo Stato Israeliano ai soli ebrei escludendo chiunque non lo sia, il che è davvero inconcepibile se si considera che Israele si sta appropriando anche della parte della Palestina assegnata dall’ONU al Popolo Palestinese; la seconda, perché dà per scontata,traendone anche le conseguenze, l’annessione dei territori di cui Israele si è indebitamente appropriato, dà per nulle le ripetute Risoluzioni con le quali lì’ONU alla luce del Diritto Internazionale ha dichiarato l’illegalità degli insediamenti dei coloni sul suolo palestinese occupato e considera inesistente la non trascurabile circostanza che alla luce dello Statuto della Corte Penale Internazionale gli insediamenti vanno annoverati nella categoria dei “crimini di guerra”per le modalità con le quali sono stati realizzati.
Insomma non può immaginarsi come la Legalità Internazionale potrebbe essere oltraggiata più di così e come il Popolo Palestinese potrebbe essere più vilipeso.
Ma il progetto di Netanyahu non deborda soltanto dalla condizione fissata nella Dichiarazione di Belfour né viola solo la Legalità Internazionale; contraddice persino la “Dichiarazione della Fondazione dello Stato d’Israele “ firmata dal < Consiglio di Stato provvisorio> il 14 maggio 1948 <vigilia di sabato 5 Iyar 5708>, nella città di Tel Aviv enfaticamente qualificata <suolo della patria>. La Dichiarazione infatti afferma: < Lo Stato d’Israele sarà aperto per l’immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai profeti d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite>.Che questi principi siano stati totalmente traditi è sotto gli occhi di tutti.
Di fronte a tanto scempio del Diritto, della Giustizia, dell’Eguaglianza che dire e,soprattutto, che fare se si ha di mira la Pace? Bastano dichiarazioni, appelli e marce? No, non bastano. Ci vogliono, ma non bastano. Bisogna provare a capire come disinnescare i meccanismi sia della sopraffazione e della violenza sia quelli delle omertà che garantisce l’impunità ad Israele, qualunque siano le illegalità e le atrocità che compia. Senza di ciò sarà impossibile impedire che la questione palestinese venga risolta relegando un fantasma di Stato Palestinese nella Striscia di Gaza e tutt’al più in un enclave ritagliata in Egitto – come è negli intenti di Trump e Netanyahu e nelle speranze anche di alcuni paesi arabi.
Per provare a venire a capo di questo intricatissimo rebus è essenziale, mi pare, porsi due domande e cercare le possibili risposte. Risposte che, per quel che mi riguarda, non possono che essere problematiche, incerte, dubbiose.
La prima domanda riguarda Israele. Come ha potuto tradirsi così profondamente da negare le sue stesse radici, i valori che i padri fondatori posero alla base del costituendo Stato? Un primo spunto di risposta si può rintracciare in quanto asserisce Moni Ovadia a proposito delle piattaforme culturali e politiche dei partiti che oggi reggono i destini di Israele. Poco o niente avrebbero più a che vedere con il sionismo essendo approdate ad un esasperato nazionalismo anche pregno di forti venature fasciste. Tesi che sembrerebbe corroborata dalle recenti abiure di personaggi di grande spessore culturale ed etico quali Daniel Barenboim e David Grossman. Tesi, però, che se può attagliarsi alle posizioni dei partiti che hanno sorretto e sorreggono i governi Netanyahu non spiega quanto accadde non solo nel 1948 ma anche negli anni precedenti, quando formazioni sioniste operarono con violenza per scacciare i Palestinesi dalle loro case e dalla loro terra. Ilan Pappé, eminente storico israeliano, ha scritto al riguardo documentate pagine in un testo non a caso intitolato “ La pulizia etnica della Palestina”.
Azzardo a sostenere perciò che il Sionismo sia sempre stato e sia un movimento poliedrico, ispirato da molte anime e quindi con non poche contraddizioni; un misto di idealità, di aspirazioni socialiste, di pulsioni irredentiste, di tensioni nazionaliste. Approdò in Palestina in un’epoca in cui la parte del mondo che aveva il maggior peso, l’Europa, era preda di grandi stravolgimenti che sfociarono in una guerra orrenda chiamata mondiale per la sua entità, che produsse nazionalismi esasperati. In quella congiuntura il sionismo trovò il contesto adatto perché nel suo seno prevalesse sulle altre la componente nazionalista e sin dall’inizio si producessero pratiche violente ed impostazioni colonialiste. Poi ci fu la seconda guerra mondiale. Tra i tanti orrori portò l’abomino della Shoah. Su come l’incubo di quella enorme sciagura abbia potuto influire sulla metamorfosi del sionismo non mi pronunzio poiché dinnanzi all’enormità di quella nefandezza mi sento inadeguato a formulare qualsiasi considerazione o ipotesi. Mi limito solo a supporre che potrà essere entrato in gioco quello che Jung chiama inconscio collettivo.
Sul come atteggiarsi per impattare questa metamorfosi del sionismo e le sue conseguenza si imporrebbe con urgenza una lunga, approfondita e pacata riflessione. Il suo avvio potrebbe essere uno degli auspicabili esiti della Marcia per la Pace del 7 Ottobre e per un suo utile sviluppo potrebbe essere decisivo un confronto collaborativo con quelle componenti del mondo ebraico che sono fortemente preoccupate per la gravità del vulnus che la degenerazione del sionismo sta portando all’Ebraismo.
L’altra domanda concerne la comunità internazionale.
Come spiegare la connivente sua inerzia che da 70 anni assicura ad Israele totale impunità. Anche in questo caso le risposte, tutte dubbiose, possono essere diverse: che ci sia uno scambio di favori, cioè impunità a fronte del presidio degli interessi occidentali in un’area strategicamente vitale; che conti enormemente il peso delle lobbies degli armamenti le quali trovano nell’instabilità del Medio Oriente un mercato assai ricco e nella Striscia di Gaza un comodo poligono per testare le armi nuove; che il colonialismo di insediamento sia funzionale alla logica dell’<accumulazione per espropriazione, tipica del neoliberismo> di cui si tratta nell’ultimo volume cui ha collaborato Alfredo Tradati, da poco scomparso; che le soluzioni tecnologiche ed organizzative in materia di sicurezza interna sono un modello che viene importato senza distinzioni da tutte la altre potenze per “pacificare” le popolazioni e mantenerle sottomesse, condizione essenziale per l’espansione capitalistica nell’era della globalizzazione, come sostiene Jeff Halper nel suo ultimo volume “Israele, i palestinesi e la pacificazione globale”.
Anche questa volta azzardo l’ipotesi che tra i motivi della omertosa complicità occidentale possa entrare con un ruolo importante l’“inconscio collettivo”: che cioè i Paesi ed i Popoli “occidentali”si siano sbarazzati troppo semplicisticamente delle loro responsabilità per l’orrore della Shoah addossandole per intero ed unicamente al nazismo ed in subordine al fascismo. Come se la Shoah fosse solo il frutto di un contingente delirio razzista e non anche lo sbocco di due millenni di persecuzioni, pogrom, discriminazioni, espulsioni,pulizie etniche a danno degli ebrei; come se razzismo ed antisemitismo non fossero una perfida e velenosa corrente che ha attraversato per secoli la cultura europea ed il modo di pensare delle popolazioni, infettandone specialmente gli strati meno evoluti e poco istruiti. A riprova si consideri che le prime leggi razziali del 900 sono state promulgate in Inghilterra e sempre in Inghilterra nel 1911, organizzato dalla Università di Oxford, si è tenuto il primo congresso mondiale di eugenetica.
Tutto ciò lo si è nascosto sotto la coltre della barbarie nazista; ma nel “profondo” dei singoli e dei popoli un ricordo è rimasto e si è sedimentato come senso di colpa, il quale, riemergendo in molti e a diversi livelli quando si tratta di opporsi o condannare i comportamenti e le decisioni di Israele, ostacola la lucidità di giudizio ed impedisce reazioni adeguate. Credo che si spieghi così anche il ribrezzo e lo spavento indotti dall’accusa di antisemitismo e perché faccia presa la fandonia, accreditata anche in sedi autorevolissime, della coincidenza tra antisionismo ed antisemitismo, in virtù della quale qualsiasi critica alla politica del governo israeliano è passibile di censura.
Anche per provare a smontare i meccanismi dell’omertà occorrerebbe una riflessione lunga, approfondita, pacata che attraverso l’assunzione delle responsabilità passate porti a sapere affrontare quelle del presente invece che eluderle.
Che i miei azzardi nel cercare risposte ai due interrogativi abbiano fondamento o meno, una cosa è certa. Di questo stato di cose le vittime sono due: il Popolo Palestinese, cui viene negato di prendere il suo destino nelle proprie mani, e l’Ebraismo, la cui nobiltà ne esce svilita e deturpata.
Per questo, la causa della Pace può trovare supporto anche in una convergenza di sforzi e di intelligenze tra chi auspica la salvezza del Popolo Palestinese e chi vuole la salvezza dell’Ebraismo. Sarebbe importante che il 7 Ottobre si proponesse di favorire il loro incontro.
Per completare il quadro disastroso del conflitto israelo-palestinese bisognerebbe considerare anche le perniciose divisioni interne al fronte palestinese ed in particolare lo scontro tra Hamas e l’ANP. Ma questo, anche se anch’esso ha a che vedere con la Pace in Palestina, è un altro discorso.
*Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese