Trent’anni fa, il 26 settembre 1988, il sociologo e giornalista Mauro Rostagno veniva ucciso in un agguato mafioso alle porte di Trapani. Aveva 46 anni e aveva succhiato energia da ogni singolo giorno vissuto: giovanissimo emigrato all’estero, quindi studente di Sociologia a Trento attorno al 1968, assistente alla cattedra di sociologia all’università di Palermo, responsabile regionale siciliano di Lotta Continua (clamorosa l’occupazione della cattedrale con i senza tetto della città), fondatore a Milano del centro sociale Macondo, a cui seguiranno gli anni in India nell’ashram di Osho a Pune e infine Trapani con Saman, prima centro di meditazione, poi comunità terapeutica per tossicodipendenti, cui negli ultimi due anni aveva affiancato il lavoro da giornalista alla rete televisiva locale Rtc. Saranno proprio i suoi servizi, le inchieste e la comprensione della penetrazione di Cosa Nostra a Trapani a portare alla reazione dei capi mafia: ora trent’anni dopo, c’è finalmente anche una sentenza a certificarlo.
Maddalena è la seconda figlia di Rostagno. E’ con lei che lo ricordiamo, senza la pretesa di esaurire tante esperienze in un articolo soltanto. Troppe vite in una per pensare di cavarsela con qualche migliaio di battute.
Trent’anni. Mauro Rostagno prestava attenzione alle date comandate? Ai compleanni, al Natale?
«In questo, come in pressoché tutte le cose, esprimeva una sua via, non convenzionale. Il Natale credo di non averlo mai festeggiato con lui, diceva che la nostra vita era un’eterna vacanza; i compleanni sì invece. Non era per nulla legato alle ricorrenze. A Trento però andò, ci teneva molto, era il ventennale del 1968 alla Facoltà di Sociologia, con tutto quel che ne era derivato. Era febbraio, mancavano pochi mesi alla sua morte».
C’è un video di quel celebre incontro trentino del 1988: Rostagno parla con una giacchetta di un beige improponibile, ed è fin banale dire che il suo «Per fortuna abbiamo perso» suona proprio come la parola finale su un’intera lunga stagione, «amata, irripetibile». Pochi mesi dopo, all’inizio dell’autunno, Mauro Rostagno è in auto, quando sicari del boss locale Vincenzo Virga lo aspettano a poche decine di metri da quella che da 7 anni è la sua nuova casa. Con lei in Sicilia ci sono la compagna Chicca e la figlia Maddalena, che all’epoca ha 15 anni.
Inclassificabile dunque. Non è bizzarro che oggi siano in molti a celebrarne la figura, anche tanti che in vita lo guardavano – quando erano generosi – come un tipo strambo?
«Ha avuto esperienze molto diverse fra loro e tutte vissute con grande intensità di rapporti e impegno. Ecco perché nei convegni, agli incontri, salta sempre fuori un trapanese, o un “macondino” che mi vengono incontro per raccontare la loro esperienza con il mio papà, il pezzo di strada fatto insieme. Penso quindi a singoli, non alle categorie, cui era allergico, direi ricambiato».
Torino, Trento, Palermo, Milano, poi l’India e infine Trapani, realtà molto differenziate. E’ la Sicilia che in questi anni ha mostrato la maggiore attenzione nel ricordare la sua figura?
«Forse. Per Trapani e questa fetta di isola il suo arrivo è stato come uno choc, soprattutto quando sono iniziate le inchieste televisive. Nomi e cognomi di mafiosi detti davanti alle telecamere, prese in giro dei boss locali, naso ficcato nei malaffari. “E’ meglio che un giornalista esageri piuttosto che taccia” era una sua frase. Puoi immaginare che terremoto. E infatti Trapani ci ha messo un po’ a elaborare la sua vita e la sua morte. La prima manifestazione è del 2004. Da allora è vero che le iniziative si sono moltiplicate. Non si possono fare classifiche: penso al contributo di tutti i suoi amici degli anni di Trento che da subito hanno iniziato a raccogliere materiale di documentazione sia sulla sua figura che sulla sua morte, e ad organizzare convegni. E come dicevo prima ci sono i frequentatori di Macondo, un universo a sé».
Trent’anni, una vita, un giorno
«Sono tantissimi. Oggi ho l’età che aveva mio papà allora, e mio figlio ha la mia età di allora. La mia età da ora in poi sarà maggiore della sua, dovrò farci i conti. Sarebbe oggi un bellissimo vecchietto con barba e capelli bianchi».
Ho letto nelle testimonianze dei parenti delle vittime di mafia e terrorismo esperienze profondamente differenti su come viene vissuto il periodo successivo a un simile trauma. Fra loro c’è anche chi ha vergogna a raccontare cosa fosse accaduto al padre, al fratello. Che cosa è successo a te?
«Sapevamo che cosa stava facendo lui, le inchieste, quanto era esposto. Ma era invincibile ai miei occhi, davvero mai si può pensare “potrebbe toccare a noi“. Dopo la sua morte sono tornata a scuola e in tutte le aule, sui muri, sul mio banco, c’erano frasi e disegni su Mauro. Per anni ero stata isolata dai miei compagni, e non solo, perché ero la figlia dei fricchettoni, dei drogati che fingono di curare i drogati. Stessa cosa era successa a Mauro, per lo meno fino a quando non ha iniziato il lavoro in TV. Ho smesso di andarci dal giorno dopo. Con Chicca ci siamo trasferite a Milano e lì anche all’Università non ho mai raccontato niente a nessuno, ed ero fierissima di questo: non volevo che mi conoscessero come “figlia di”, avevo bisogno di compiere il mio percorso. Ne ho parlato quando sono stata in pratica costretta dall’arresto di mia madre nel 1996».
Certo il 1996, la svolta nelle indagini, la soluzione finalmente raggiunta. Un omicidio fra drogati, con corna, amanti, passioni, solitudini. Tutto interno a Saman. Cherchez la femme; ma lo diceva già anche Sciascia, è troppo facile così. Però, prima che il castello di accuse crolli miseramente come miseramente era stato innalzato, Chicca Roveri, la compagna di Rostagno, passa 15 giorni a San Vittore. Clitennestra la chiamerà uno dei massimi giornalisti italiani. La nostra categoria ne esce discretamente a pezzi. La storia di lenzuola e sangue eccita le penne: chi in malafede, chi per sciatteria, chi per accontentare il proprio ego, si sprecano i racconti del delitto maturato fra amici.
Come hai vissuto quei giorni?
«Sono stati una svolta. Prima non avevo mai letto le carte delle indagini sulla morte e sulle inchieste. Avevo 15 anni nel 1988, ne avevo 23 nel 1996, ero giovane e c’erano state altre fasi da superare. Al momento dell’arresto di mia madre ho capito che dovevo conoscere perfettamente tutti gli aspetti della vicenda per non cadere in un altro incubo. Tutto quel fango dai giornali e dalla Procura, quelle ricostruzioni false del nostro mondo, non le potevo accettare. Studiare e quindi raccontare sono stati gli strumenti che avevo in mano e con quelli ho giocato la mia partita. Abbiamo conservato tutti gli articoli, per anni, fino al processo, e prima di me era stata Chicca fin dall’inizio a mettere da parte qualsiasi cosa riguardasse questa storia. Ciò che mi dava più rabbia era la descrizione di un Mauro nell’ultimo periodo triste e solo che molti volevano dare. E’ sempre stato allegrissimo, gioioso».
Sono pochi i giornalisti che vanno contro corrente e contribuiscono a dimostrare l’assurdità della pista “interna”: fra loro si spendono in particolare Adriano Sofri e Enrico Deaglio. Questo filone si dimostra presto totalmente arido, e finalmente, siamo nel 1997, viene imboccata la strada giusta, quella che dall’inizio era apparsa immediatamente chiara ai veri servitori dello Stato, a figure come il capo della squadra mobile Calogero Germanà: il delitto era opera della Mafia. Questo ficcanaso andava messo a tacere.
Nel 2011, a 23 anni dai fatti, si apre il processo contro Vincenzo Virga, capo della cosa trapanese, in qualità di mandante, e Vito Mazzara, quale esecutore materiale dell’omicidio.
La sentenza di primo grado li condanna entrambi all’ergastolo. La sentenza di appello, del febbraio di quest’anno, conferma la matrice mafiosa e l’ergastolo a Virga. Assolto invece Mazzara e le motivazioni, ancora non pubblicate nonostante siano già scaduti i termini per la consegna, sono attese per comprendere il perché di questa decisione che ancora una volta ridisegna parte della vicenda.
Molte sono le manifestazioni previste in questi giorni in tutta Italia: da Trento a Torino, da Trapani a Palermo per ricordare la figura di Rostagno, sociologo, giornalista, uomo libero.
*Articolo21 Circolo Piemonte