Può succedere che l’incontro fatidico con un libro o con una persona (e con una persona, visto che i libri il più delle volte li scrivono degli esseri senzienti) accenda un riflettore potente sull’origine delle nostre intuizioni larvali, quelle che troppo spesso non ci curiamo di approfondire. Chi riesce a mettere in azione questa luce cruda e nello stesso tempo intrigante è depositario di un metodo prezioso che possiamo chiamare scientifico. Occorre saper raffreddare la passione verso un’arte particolare (in questo caso il cinema) per ottenere la distanza dello sguardo capace di analizzare, attraverso stazioni progressive, non solo gli strati più interni di un’opera, ma addirittura l’interazione che si crea fra l’opera e lo spettatore e le ragioni psichiche dalle quali prende avvio e si evolve tale interazione.
In questo caso si tratta del saggio ‘Fassbinder e l’estetica masochista’ di Simona Almerini (ed. Il Foglio), esperienza iniziatica più avvincente di qualsiasi romanzo. Che l’autrice faccia parte della redazione di questo giornale non è rilevante, non è certo per questo che lo cito, bensì per i motivi che ho appena elencato e, aggiungo, per un curioso effetto di affinità/diversità spiazzante, come trovarsi davanti a una parete riflettente che mostra la figura familiare eppure difforme (e in un primo momento strana) nella quale si stenta a riconoscersi. E quando il nostro destino si incrocia con un pensiero in grado di sollecitare una discesa lucida e sovversiva nelle cavità della mente (sarebbe tuttavia meglio definirlo movimento verticale, in senso discendente e ascendente), si innescano processi imprevedibili e irreversibili di cui non si può che essere grati.
Così, procedendo nella lettura che esamina, seziona e chiarisce con quieta caparbietà e controllato, quasi divertito, stato febbrile la radice masochista del cinema di Fassbinder – dall’impostazione delle relazioni sui rapporti di potere non perché vittime di una forza esterna ma per un desiderio incontrollabile, all’educazione come strumento per opprimere l’altro – e molto, molto di più, le connessioni neuronali si accendono e iniziano a divagare per conto proprio, creando, come fa il cinema, altri mondi paralleli.
Perché una folla di immagini, di sequenze, proprio quelle che abbiamo amato di più, che ci sono entrate nel sangue, ci arriva addosso senza possibilità di riparo. E sembrano nuove proprio perché illuminate da quel riflettore. Chiedono attenzione, un’interpretazione più accurata, o forse più sincera e profonda (la profondità va in alto e in basso). Con precisione estrema, comprendiamo il motivo per il quale avremmo voluto morire nel corridoio dello Shanghai Express di von Sternberg, mentre una luce trasfigurante pioveva dall’alto isolando il volto e le mani di Marlene Dietrich nel buio, creando lo spazio claustrofobico e illimitato, atemporale, che appartiene al desiderio, dio della carneficina ritualizzata (addirittura liturgica se si pensa a Le Serve di Genet). E ancora, capiamo il turbamento inesprimibile di fronte a Marlene Dietrich, sempre lei, in frack nero e sigaretta fra le labbra mentre in Marocco seduce scettica e quasi annoiata uomini e donne (potrebbe avere questo atteggiamento Elina Makropulos, avvolta nel tedio delle sue molte vite). E’ l’ambiguità l’humus di un universo dominato da eros e morte. L’attrice, essendo oggetto dello sguardo maschile e contemporanemente detentrice dello sguardo attivo, complica i meccanismi di identificazione.
Torniamo a guardare anche Carol Aird e Therese Belivet nella camera del motel di Waterloo nello Iowa, la sera di Capodanno. Le possiamo osservare di spalle e frontalmente, riflesse nello specchio, mentre Todd Haynes (cultore del cinema di Douglas Sirk) segue il movimento con cui Carol scioglie la cintura della vestaglia, allungandola in orizzontale, e con essa il tempo; costruendo l’attesa necessaria al desiderio, mentre quello stesso gesto fantasma si fissa nella mente di Therese come l’istante perfetto della sospensione e della fascinazione.
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