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Servizio pubblico a ore

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Vi sono state polemiche sulla tempestività con cui la Rai è giunta con i mezzi propri sul luogo del crollo del ponte di Genova, dopo la tragedia. Sky ha avuto forse maggiore prontezza organizzativa. Il racconto di un dramma non è una gara sportiva e, va detto, la terza rete e il Tg3 nonché Rainews hanno mantenuto il passo della diretta per ore insieme alla redazione ligure. E così ha fatto pure Retequattro di Mediaset in via di trasformazione dopo l’era del manganello mediatico. Tuttavia, la forte presenza sul territorio con uno storico decentramento di cui nessun altro broadcaster dispone pone anche in questo caso il tema del “servizio pubblico”. Della sua natura. L’essere,cioè, quest’ultima prevalentemente orientata a rendere un’informazione di precisione al di là di ogni considerazione, ovvero a privilegiare programmi di maggior presa di mercato. Ciò significa investire per aggiornare i mezzi tecnici e utilizzare l’enorme opportunità della rete, riconsegnandole utilità sociale e straordinaria potenza comunicativa.

Nel momento in cui si cambiano i vertici dell’azienda di viale Mazzini è fondamentale capire la missione e se lo spirito del servizio pubblico sia una variabile marginale rispetto alle contese di potere. Senza chiarire simile nodo, la vicenda della presidenza della Rai rimane avulsa da ogni discussione sui contenuti. Insomma, chi per che cosa? E lo stesso canone di abbonamento rischia di perdere il valore che gli fu attribuito.

Neppure il servizio pubblico può essere ad ore. Anzi, relegato come un alibi soprattutto nelle fasce ultraserali o notturne. Giustamente, Angelo Guglielmi annotò che l’abolizione di fatto della seconda serata per far posto a contenitori dilatati all’infinito e zeppi di pubblicità avrebbe diminuito la qualità dell’offerta. Spesso accade di dover attendere la mezzanotte per individuare la cifra “pubblica” del servizio. E così è avvenuto lo scorso giovedì 9 agosto per poter guardare il rilevante film documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani, intrecciato a “Sangue giusto”, romanzo aspro e affascinante di Francesca Melandri. Il film (già presentato fuori concorso all’ultimo Torino film festival) è andato in onda alle 23,55 nell’apprezzabile serie un po’ bistrattata “Doc3” della terza rete televisiva, ma ben poco pubblicizzato al di là dell’orario per sonnambuli: 228.000 spettatori; 3,5% di share.

Eppure si tratta di un materiale di straordinaria attualità, ora che si parla a sproposito di razza e si dà la caccia al migrante. Ecco, si guardi il documentario, centrato sulle vicende giovanili del padre della scrittrice, che solo dopo lunghe ricerche la figlia ha appreso essere stato sostenitore attivo della cosiddetta superiorità bianca. Emerge il terribile colonialismo italiano, macchiatosi di atrocità disumane che costituiscono un buco nero vergognoso. Ivi compreso l’uso massivo delle torture, degli stermini, dei gas. Si narrano le gesta omicide del generale Graziani, cui il comune laziale di Affile pensò provocatoriamente di dedicare un mausoleo. La scoperta della parte nascosta della vita del padre è occasione per le autrici di redigere un’autobiografia della nazione, con gli scheletri che la storiografia più compiacente ha celato per affermare la “normalità” del fascismo e la brutalità delle “conquiste” dell’impero. Rende una testimonianza straordinaria l’ex partigiano Massimo Rendina, in una delle ultime interviste rilasciate prima della scomparsa.

Un film da riproporre in orari decenti, da far circolare nelle scuole. La memoria è l’unico antidoto rispetto a dittature e razzismi.


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