Alla Fiat del 1993, scossa da Tangentopoli, serviva un po’ di ottimismo. Gianni Agnelli scommise sulla Punto, una utilitaria per il ceto medio, e fu un enorme successo. La matita di Giorgetto Giugiaro disegnò un modello che fece centro: in 25 anni sono state vendute oltre 9 milioni e mezzo di auto; nel 1997 la Punto riuscì a battere perfino la Golf, la perla del gigante Volkswagen.
Nei primi giorni di agosto l’epoca della Punto è finita, l’ultima vettura è uscita dalle linee di montaggio della Fiat Chyrsler Automobiles di Melfi, andando definitivamente fuori produzione. Massimo Capano, un operaio di Melfi, commosso ha scattato “una foto di gruppo” e ha salutato su Facebook l’ultima Punto (per le cronache di colore bianco) uscita dallo stabilimento lucano. Adesso c’è paura per il futuro, per la sorte della fabbrica e dell’occupazione. Capano ha indicato «un pizzico di preoccupazione» perché «purtroppo Marchionne non c’è più», di qui la speranza che Mike Manley «abbia la stessa considerazione nei nostri confronti e non un interesse diverso».
L’addio alla Punto apre dei seri problemi occupazionali a Melfi, lo stesso discorso vale per Mirafiori con l’uscita di scena a luglio dell’Alfa Romeo Mito, un’altra utilitaria del gruppo italo-americano. Non si tratta certo di novità. Marchionne, nel piano industriale 2018-2022 illustrato il primo giugno a Balocco, aveva confermato la doppia strategia di sviluppo: 1) lasciare gradualmente il mercato delle utilitarie puntando sui modelli premium Jeep, Ram, Alfa Romeo e Maserati con maggiori margini di profitto; 2) imboccare la strada delle nuove tecnologie delle auto elettriche (arriveranno perfino alla Ferrari) e di quelle senza pilota.
È una riconversione produttiva da mettere i brividi, soprattutto per la sorte degli impianti italiani. Marchionne, però, poco prima di morire aveva ribadito gli impegni a «mantenere la capacità produttiva in Italia, senza chiudere alcuna fabbrica e non mandando nessuno a casa». Anzi aveva promesso «la piena occupazione» in Italia entro il 2018 puntando sulle Alfa Romeo, le Maserati e le Jeep (costruite a Cassino, Mirafiori, Grugliasco e Melfi).
Marchionne, però, è morto improvvisamente per una terribile malattia lo scorso 25 luglio ed è stato immediatamente sostituito come amministratore delegato del gruppo da Mike Manley, un ingegnere britannico di 54 anni trapiantato negli Stati Uniti d’America. Forse è stato preferito da John Elkann, il capo della famiglia Agnelli proprietaria di Fca, perché è stato l’artefice dello straordinario successo di Jeep e Ram, ma la scelta non è piaciuta ad Alfredo Altavilla, subito dimessosi da responsabile del settore Europa della multinazionale. Non solo. Elkann ha scelto un nuovo vertice composto tutto da top manager stranieri, di qui l’aumento delle preoccupazioni per la sorte degli stabilimenti italiani. A molti è sembrato un disinteresse o, comunque, uno scarso interesse verso il Belpaese rispetto agli Stati Uniti.
A Manley i sindacati chiedono il rispetto degli impegni presi da Marchionne: 9 nuovi modelli (probabilmente 4 Alfa, 3 Maserati e 2 Jeep) da costruire in Italia entro il 2022 per garantire prodotti e occupazione a Mirafiori, Grugliasco, Cassino, Pomigliano d’Arco e Melfi. Il nuovo amministratore delegato si sta guardando intorno: deve guidare la settima società automobilistica del mondo (236 mila dipendenti in tutto, 86 mila nel Belpaese), impianti in Europa, America del Nord, America Latina e Asia. Dei 5 milioni di auto vendute, però, la grande maggioranza per numero e profitti proviene dai marchi americani Jeep e Ram e il pendolo sembra sempre di più spostarsi verso gli Stati Uniti e Detroit marginalizzando l’Italia e Torino.
Manley, per ora, ha parlato poco. Come successore di Altavilla (responsabile Europa e quindi Italia) circolano i nomi di Pietro Gorlier (Magneti Marelli), Davide Mele (ex collaboratore di Altavilla), Gianluca Italia (mercato italiano), Daniele Chiari (relazioni istituzionali). L’amministratore delegato si è limitato ad assicurare: «Restano confermati tutti gli obiettivi che ci siamo posti con il piano industriale al 2022». Ma ha precisato: «La sfida più grande è in Cina, dove per noi è molto importante il riposizionamento di Jeep». Ancora una volta il baricentro dell’impero Agnelli sembra pendere più verso Detroit e che verso la culla di Torino.