Dal blog ‘Mafire’ di Attilio Bolzoni.
Tutte le uccisioni per mano mafiosa, lo sapranno i più, hanno in comune lo stravolgimento postumo del fatto a mezzo di insinuazioni viscide e calunniose. Specie quando si tratta di giornalisti.
Si disse di Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, che fosse stato ucciso a causa di una tresca amorosa (“cosi di fimmini” come si diceva a Catania). Si disse di Giuseppe Impastato che fosse morto a seguito di un tentativo di sabotaggio andato male, che gli si era ritorto contro con il passaggio del treno sui cui binari voleva porre un sedicente ordigno.
Quel che già è un comportamento deprecabile, come diffamare chi è morto, diventa un agire dai contenuti giuridici estremamente pericolosi e rilevantissimi quando tale diffamazione assume non già gli elementi di un “semplice” reato, bensì i contorni di un depistaggio in piena regola, esercitato da coloro i quali dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) garantire l’ordine pubblico, ricercare la verità, ponendo in essere quanto in proprio potere per arrivare all’ottenimento di una verità “vera”, cioè a dire non appesantita da artifizi che possano portare a comprenderne le responsabilità.
La figura di Antonio Subranni è solo la prima di tanti uomini che, in Italia ma non solo, si sono trovati a costruire pezzi importanti della propria carriera intorno ad una cooperazione con la mafia.
Gli elementi più rilevanti di questo depistaggio vengono individuati dal Centro Impastato, che presenta nel 1994 la prima istanza di riapertura dell’inchiesta. Fa seguito a questo il lavoro della Commissione Parlamentare Antimafia la quale, non senza difficoltà dati gli anni trascorsi, riesce a ripercorrere in parte tutte le omissioni che già sul luogo dell’omicidio avevano contribuito a deviare le indagini.
Appare insolito il fatto che, nella prima informativa dei Carabinieri redatta quarant’anni fa, non vi sia traccia di una grossa pietra sporca di sangue a pochi metri dal cratere sui binari. Sarà rinvenuta diverse ore più tardi dagli amici di Peppino, i quali non avranno dubbi sul fatto che quella sia l’arma usata per ucciderlo. Dopo l’uccisione, il depistaggio dei mafiosi: il corpo viene legato ai binari e viene inscenato il suicidio di un terrorista al posto dell’omicidio di un giovane attivista.
L’esplosivo usato nel presunto attentato, era lo stesso di quello usato nelle cave intorno Cinisi, ma non verrà ordinata alcuna perquisizione per vedere se dell’esplosivo era effettivamente stato sottratto poichè “anche se
si volesse insistere su un’ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia” come scrivono i Carabinieri nel primo rapporto presentato in Procura.
A questo punto una domanda sorge spontanea: perché gli uomini del generale Subranni avrebbero depistato le indagini sull’omicidio Impastato come sostenuto dal Centro Impastato? Già numero uno dei ROS, da poco condannato a dodici anni di reclusione nell’ambito del processo sulla Trattativa Stato-mafia, su Subranni è stata avanzata una richiesta d’archiviazione in merito a questi fatti (l’ultima è del 2016) e si è in attesa della decisione del gip in riferimento alle indagini portate avanti, tra gli altri, anche dai pm Nino Di Matteo, minacciato da Cosa Nostra, e Roberto Tartaglia.
Una risposta alla domanda, in realtà, aveva giàprovato a darla nel 2000 la relazione di Giovanni Russo Spena per la Commissione Antimafia. “E’ del tutto probabile -scrive Spena- che Badalamenti abbia avuto dei rapporti confidenziali con i Carabinieri in una zona alta, apicale, data la statura delinquenziale del capo mafia di Cinisi. E’ ancora tutto da scrivere il capitolo del rapporto tra mafiosi e Forze dell’Ordine. E quando lo si scriverà si potrà vedere che esso è popolato da notissimi capimafia i quali […] vogliono apparire come i più fieri avversari della ‘sbirraglia’ ma in realtà con la ‘sbirraglia’ trattano, si accordano, fanno dei patti.”
Non è ancora chiaro se sia avvenuto ciò ed in che modalità, ma qualora così fosse, le indagini su Impastato sarebbero state deviate per un patto tra boss e Carabinieri (o meglio, una parte di questi). Uno scambio di favori che presumibilmente aveva come obiettivi da un lato il controllo delle zone di Cinisi e di Terrasini, dall’altro la cattura di alcuni latitanti. Un’antesignana trattativa Stato-mafia che, se confermata, rivelerebbe una cooperazione anche precedente alla cosiddetta stagione delle stragi.
Tag: Studiare le mafie 2
Scritto in Mafie | 2 Commenti »
La ‘Ndrangheta e l’altra Calabria
di Leone Raul Tolisano
foto Tolisano
Leone Raul Tolisano – Università degli Studi di Torino, relatore professore Rocco Sciarrone
Nell’immaginario collettivo e nel dibattito pubblico la ’Ndrangheta appare radicata su tutto il territorio calabrese. Da qui avrebbe nel tempo esteso il suo raggio di azione «conquistando» altri territori. Di recente diversi studi hanno posto attenzione ai fattori che rendono possibile l’attecchimento del fenomeno in aree diverse da quelli di genesi storica. Eppure, a fronte di una ricca produzione editoriale, ancora pochi sono gli studi focalizzati in Calabria.
La mia tesi si è posta l’obiettivo di capire se e come il fenomeno mafioso si sia riprodotto in Calabria e segnatamente su una porzione di territorio che ricade nella provincia di Cosenza.
Qui coesistono formazioni criminali di tipo mafioso diverse da quelle della Calabria meridionale in termini di struttura organizzativa, campi di attività e capacità di infiltrare l’economia, la politica e le istituzioni. Stretta in una «zona di cuscinetto» il cosentino ha costituito per le organizzazioni mafiose tradizionali un’area di sfruttamento. Meta di latitanza e terreno di incontro per le grandi possibilità di estendere i traffici illeciti, nonché crocevia di interessi economici particolarmente permeabile alle attività di riciclaggio. Da questo punto di vista il Cosentino è un territorio che presenta un profilo criminale peculiare, “terreno” d’indagine interessante per analizzare i meccanismi di riproduzione delle mafie nel tempo e nello spazio.
La ricerca si è focalizzata su due aree: Cosenza con il suo hinterland e la Piana di Sibari. Il primo caso studio è emblematico per illustrare peculiari modalità di espansione di una criminalità autoctona. Il secondo è, invece, esemplificativo per spiegare una modalità di espansione per contiguità territoriale che si muove lungo due direttrici: per via economica, attraverso un gruppo di camorra; per via organizzativa, tramite i sodalizi crotonesi legati a gruppi di ’Ndrangheta reggini.
I casi, pur mostrando diversi modelli di insediamento, hanno alcuni elementi comuni.
Innanzitutto si tratta di processi non irreversibili: la presenza del fenomeno mafioso è circoscritta ad aree ben definite, e i gruppi nel corso del tempo hanno rivelato un atteggiamento più adattivo che propulsivo. La questione, tuttavia, si collega alle difficoltà dei sodalizi di strutturarsi sul territorio.
Sin dalla sua prima apparizione, la criminalità autoctona si è caratterizzata per una bassa tenuta del vincolo associativo, una scarsa attitudine alla pratica e al mantenimento della segretezza interna al gruppo, una tendenza alla conflittualità, un’insofferenza nei riguardi di regole e norme condivise di comportamento.
Questi elementi sono stati, ovviamente, alcuni dei fattori che ne hanno determinato una sostanziale debolezza non solo sul piano strettamente operativo, ma anche su quello più propriamente ideologico. Tanto che, pur non essendovi dubbio sulla qualificazione mafiosa di questi sodalizi sotto il profilo giuridico, emerge con chiarezza la modesta solidità del fenomeno dal punto di vista strutturale.
Qui la mafia si è presentata più come enterprise syndicate, ovvero modello di organizzazione e di gestione delle attività illecite, che come power syndicate, ossia struttura di azione integrata, complessa e radicata in grado di estendere il proprio controllo e influenzare la società più ampia.
Nelle rappresentazioni pubbliche questa presenza meno opprimente è spesso letta come totale assenza di mafiosità. La mancanza di legami fondati su «vincoli di sangue» dei gruppi criminali cosentini, secondo alcuni osservatori, spiega l’elevato numero di collaboratori di giustizia, taluni investiti da ruoli apicali. In realtà, se proviamo a problematizzare la questione, un dato appare inconfutabile: sono proprio i legami di sangue a promuovere l’ingresso nella consorteria e a determinarne l’exit. In generale, sulla base dell’analisi dei verbali di avvio della collaborazione di una ventina di ex affiliati emerge con chiarezza come all’origine di questa scelta vi siano motivazioni dettate da un calcolo meramente razionale-strumentale più che affettivo-valoriale. Nella criminalità mafiosa attiva in provincia di Cosenza non pare dunque esserci un deficit di «legami di sangue», anzi sono proprio questi che alla lunga si rivelano non sufficienti a consolidare solidi vincoli di lealtà e di appartenenza.
Il secondo elemento comune è rintracciabile nell’esistenza di un rapporto diretto con la politica e l’economia, che ha legittimato e riconosciuto gli esponenti delle organizzazioni criminali, sia nel passato che nel presente, come autorevoli interlocutori. Certo è riduttivo spiegare esclusivamente in questi termini l’infiltrazione mafiosa in questo territorio, che invece impone, un’interpretazione «multifattoriale», tuttavia è dirimente, a mio avviso, la configurazione di un’area grigia di collusione e complicità, laddove gli assetti istituzionali e l’orientamento degli attori politici ed economici contano più delle strategie degli attori criminali.