Adesso che l’Agromafia ne ha ammazzati 16 in tre giorni, riusciremo a occuparcene sul serio? Perché quelli morti nei furgoni dopo un’altra giornata da schiavi non sono solo vittime di malaugurati sinistri stradali. Nonostante fossero quasi tutti in regola con il permesso di soggiorno, addosso ai cadaveri non hanno trovato nessun documento. Passaporti e permessi di soggiorno, infatti, vengono trattenuti dai “caporali”. La riprova che i neri delle campagne sono in ostaggio e che la paga da due euro all’ora, oltre che misera, altro non è che la misura inversa del riscatto che i braccianti senza diritti devono pagare ai negrieri della nostra porta accanto.
“Questa economia uccide”, osserva Papa Francesco. E uccide a casa nostra. Uccide stranieri e uccide italiani. Come Paola Clemente, una madre che il bisogno ha spinto nei campi. Aveva 49 anni. Lei che in campagna, a gattoni tra i filari, non era abituata a lavorarci. Cadde tramortita da un infarto dentro a un tendone che d’estate, era il 13 luglio del 2015, avrebbe fatto sembrare fresco un bagno turco. Dodici ore al giorno, più il viaggio stipati negli scomodi pulmini spesso con targa estera per sfuggire all’obbligo di revisione. Due anni dopo, per quella morte, arrestarono sei persone. Tutti italiani.
La legge contro il caporalato adesso c’è. Farla rispettare è difficile, soprattutto perché mancano i mezzi e gli uomini per svolgere controlli capillari.
E’ così che ci guadagnano tutti. Gli sfruttatori, che possono assicurarsi manodopera che si fa concorrenza al ribasso. Ci guadagna quella parte di grande distribuzione che impone prezzi stracciati, incuranti del sudore (e del sangue) versato. Quei morti sono lì a dircelo.
Da risanare c’è un’intera filiera. Prima, però, bisogna raccontarla. Dal business del seme gettato nei campi fino alla pastasciutta intorno a cui si riuniscono le famiglie.
Degli schiavi stranieri, si sa sempre poco. Ed è sempre stato questo uno dei vantaggi delle agromafie. Cosa nostra siciliana, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra corona unita pugliese. Non c’è cartello criminale che non stia investendo nel “Made in Italy” della tavola.
Da alcune settimane “Avvenire” pubblica reportage e inchieste che lasciano senza fiato. Nessuna pietà. E nessun futuro per chi finisce intrappolato nei ghetti tra i campi.
Per dirla con don Luigi Ciotti, dobbiamo domandarci “in che genere di mondo vogliamo vivere. Se in quello dove il lavoro è un diritto e un libero contributo al bene comune, o in quello, che sempre più cupamente si annuncia, dove l’essere umano sfrutta il suo prossimo e c’è solo posto per gli egoisti, per gli indifferenti, per i potenti e per i corrotti. Perché – conclude il fondatore di Libera – se è il primo mondo quello che vogliamo, non è più possibile assistere inerti a questo olocausto di vita e di speranza”.