A distanza soltanto di qualche anno da un precedente evento catastrofico, Genova è stata colpita dal crollo di un ponte che era un architrave importantissimo dell’economia della regione, di quella dell’intero paese e forse più. Il crollo ha ucciso 43 persone, ne ha ferito altre 9, ha reso inagibili decine di case e causato centinaia di senzatetto.
Al cospetto di tanto disastro il comportamento della popolazione genovese è stato ed è esemplare per la compostezza con la quale si è affrontato il dolore per la perdita di tante vite umane, la forza con la quale si sopportano i gravi problemi che hanno stravolto la vita quotidiana non soltanto di chi è rimasto senza casa, e per la prontezza con la quale, senza lasciarsi andare allo scoramento, ci si sta mobilitando per dar mano alla “ripresa” delle attività ed alla “ricostruzione”.
Ancora più encomiabile il sistema dei soccorsi che anche questa volta ha mostrato capacità che sfociano spesso nell’abnegazione e competenze organizzative e tecniche elevate. Una volta in più nella disgrazia si è fatta largo un’<Italia che funziona>,del tutto diversa da quella che ordinariamente si manifesta nella normalità quotidiana.
Non altrettanto può dirsi del clima generale che si è determinato nel paese. E’ immediatamente apparso lo spettacolo inverecondo della <politica>,di tutta politica, senza alcuna esclusione. Ciascuna componente dello scenario politico si è vergognosamente impegnata, quale con più abilità quale con minori, a tirare l’acqua della disgrazia al proprio mulino e a gettare discredito sugli avversari, dando prova, per altro, di essere completamente ignare della complessità degli eventi e di quanto ogni parola pronunziata in circostanze tanto drammatiche abbia inevitabilmente conseguenze rilevanti sui più diversi fronti. Si è scatenata così una caccia all’untore per l’individuazione del colpevole in una situazione nella quale niente sarebbe più appropriato della sfida con la quale gli accusatori di un’adultera furono bloccati un paio di millenni fa: <lanci la prima pietra chi è senza peccato>. Il che non servirebbe per scagionare alcuno, ma al contrario,per impedire che le responsabilità di molti venissero celate sotto la comoda copertura di quelle dei capri espiatori.
Per cercare le cause di ciò che è accaduto ci si è affidati soprattutto alla Magistratura perché scopra al più presto i rei e faccia rigorosamente “Giustizia”.Si dà cioè per scontato che le cause del crollo siano tutte ed esclusivamente rubricabili come reati,per cui se a contribuire al collasso del ponte vi fossero stati fattori non configurabili sotto una fattispecie penale essi verrebbero trascurati: la magistratura infatti non è preposta che a perseguire reati. Ma quand’anche si scoprisse che tutti i fattori del crollo rientrassero nella competenza della magistratura non per questo il problema sarebbe risolto: la punizione dei responsabili, per esemplare che fosse, non varrebbe infatti a rimuoverli in modo che non abbiano a causare altre sciagure. Ci si trova infatti di fronte ad una situazione complessa nella quale a scongiurare nuovi disastri non sono sufficienti gli incrementi di scrupolosità, attenzione e solerzia che l’effetto deterrente delle condanne potrebbe produrre. Per soprammercato c’è un’altra semplificazione. Stando al dibattito reso pubblico,sembrerebbe che lo spettro delle indagini sia ristretto al campo dei fattori ingegneristici; questi certamente sono presenti fra le cause del disastro ma è difficile escludere, data la complessità del contesto in cui il disastro è avvenuto, che ve ne possano essere altre di ben diversa natura. E’ verosimile invece che ve ne siano e di non poco conto.
Lo suggerisce la considerazione che, per dirla con un cittadino genovese intervenuto nella trasmissione di Rai 3 Prima Pagina qualche giorno fa, <i disastri a Genova da alcuni anni sono di casa>. E sono disastri che a prescindere dalle dimensioni sembrano presentarsi tutti con un tratto comune: la forzatura sin dall’origine di un limite,come se questa fosse un’impronta peculiare del “modello Genova”.
Ma a ben guardare la forzatura dei limiti non è una prerogativa esclusiva del modello genovese. Provare a spostare in avanti, e sistematicamente, ogni limite è peculiarità nella nostra epoca di tutto il cosiddetto mondo progredito. E’ ciò che avviene nello sport, nella scienza, nella medicina, in economia, nelle costruzioni, ovunque; l’obiettivo va sempre posto “oltre”; tutto deve essere più grande,più alto,più profondo,più largo più veloce,più rapido,più potente; ma anche, all’opposto, più piccolo, più sottile, più leggero;più silenzioso,etc. E’ una corsa generale ed ossessiva al superamento di qualcosa e di qualcuno, senza tregua; si vuole, si deve andare oltre ogni limite che si presenti. Chi primeggia in questa assillante ricerca dei <più> in là è l’innovazione tecnologica cui le scienze si prestano da supporto.
Per governare tutti questi <più> occorrono sistemi via via maggiormente complessi. E qui ci si può perdere facilmente; si può smarrire del tutto il senso del limite e delle proporzioni, non riuscire a calibrare bene responsabilità e poteri corrispondenti, non cogliere il giusto abbinamento tra poteri e saperi. Sii finisce col mettere in campo organizzazioni funzionali incapaci di governare quella molteplicità di <più> che si espande nel tempo. Così le organizzazioni restano inerti quando più impegnative sono le decisioni e più indispensabile sarebbe il loro intervento.
Temo che proprio questo sia capitato a Genova. Temo che la caduta del Ponte Morandi non sia soltanto la distruzione di un asse viario vitale per il congiungimento di due parti di una città e del suo porto. Credo che segni sia il crollo di un “modello” economico con il relativo suo assetto territoriale sia lo smascheramento di un ‘organizzazione funzionale carente ed inefficace che, come il cavallo nei concorsi ippici che scarta l’ostacolo, è rimasta impietrita quando è balenata la eventualità di dover prendere decisioni molto impegnative.
Se così fosse – e temo proprio che sia così – la gravità della catastrofe sarebbe terribilmente maggiore di quanto si sia detto sinora. Non si tratterebbe di una tragedia causata da un “concorso di fattori” tecnici ma della dimostrazione che è un intero sistema che non regge. E poiché è un sistema che non è circoscritto all’area genovese ci riguarda tutti.
Il crollo improvviso ma non del tutto inaspettato del ponte Morandi e l’inerzia del contesto funzionale che lo ha consentito potremmo assumerli dunque a metafora di quel che avviene a scale ben più ampie. Persino a scala planetaria, ad esempio per quel che riguarda l’ambiente.
Si sa che i cambiamenti climatici ed il consumo umano in alcuni mesi soltanto delle risorse che la natura genera in un intero anno sta modificando l’ambiente al punto da renderlo non più ospitale per l’essere umano. Si sa che ciò avverrà non nel giro di secoli ma che è in atto un processo che può concludersi in un arco temporale misurabile in decenni. Eppure non vi è modo di arrestare il proseguire di questa folle corsa del mondo che insistiamo a chiamare“progredito”.Nessuno è in grado di intervenire efficacemente.
In conclusione, se dai fatti di Genova volessimo proporci di trarre qualche insegnamento da applicare in casa nostra, dovremmo porci tutti, non solo i Genovesi, una domanda. Ricostruire d’accordo, ma come? Come prima, secondo lo stesso modello economico territoriale e la medesima organizzazione funzionale? O dovremmo riconsiderare radicalmente il nostro modo di produrre, di consumare, di stare insieme su questa Terra?
Domanda troppo grossa e impegnativa, lo so. Per questo resterà senza risposta, come i segnali che secondo alcuni cittadini genovesi il Ponte Morandi aveva dato prima di crollare.