Tenere accesi i riflettori sulle periferie dello sfruttamento, della dignità e dei diritti negati ai nuovi schiavi dei campi, deve restare il compito di un giornalismo di frontiera in una terra come la Puglia.
La marcia dei berretti rossi, che è si svolta a Foggia per ricordare i 16 braccianti agricoli morti tra sabato e lunedì in due diversi incidenti stradali, deve continuare allargando lo sguardo oltre i caporali, ampliando l’orizzonte dalla cronaca fino alla conoscenza delle radici profonde di un fenomeno che continua a seminare morte.
Un intreccio tra arcaico e postmoderno, una violenza da preriforma agraria e ultraflessibilità lavorativa, in cui i ghetti sorti in Puglia, come in Campania, Calabria, Sicilia, e perfino in Piemonte, sono sempre stati la punta dell’iceberg: il luogo dove le braccia del nuovo lavoro agricolo globale vanno a dormire e mangiare in attesa di un nuovo ingaggio, o magari in attesa di niente, dal momento che la regola del lavoro dei campi (oltre alla presenza dei caporali) è la profonda discontinuità che lascia, oggi come ieri, i braccianti ai margini del ciclo produttivo, nella speranza di ottenere una serie accettabile di giornate di lavoro.
E’ quello che ci ha insegnato e consegnato Alessandro Leogrande, con la sua passione, la sua capacità di analisi, di andare al centro delle cose, di capire che dietro il “rosario dei morti” dei braccianti stranieri e italiani come Paola Clemente, c’è un sistema che ha dimensioni globali,lontane e mai abbastanza “illuminate”.
Leogrande sosteneva, a proposito della questione migratoria, che “raccontare le realtà dei contesti di provenienza dei flussi migratori che toccano da vicino le società occidentali è l’unico modo per conoscere il fenomeno”. Egli rilevava che in altre fasi storiche le crudeltà compiute dai regimi erano conosciute grazie alla diffusione e alla circolazione di informazioni: “nell’epoca di Pinochet, non si poteva dire a nessuno che scappava dal regime di tornare indietro, e nessuno parlava di respingimenti”. La maggior parte dei cittadini occidentali conosceva le condizioni in cui versavano gli oppositori a Pinochet, e questa circolazione di informazioni passava anche attraverso i racconti sui media.
Oggi l’assenza del racconto di alcuni contesti-paesi determina una de-polarizzazione delle condizioni geo-politiche di alcuni aree, da cui discendono l’invisibilità delle condizioni, spesso disumane, di chi vive in quei contesti e l’incomprensibilità sulle ragioni delle partenze. C’è poca attenzione a ciò che avviene al di fuori dell’Italia, ancora di meno a quello che succede in Africa. Invece uno sforzo di comunicazione riguardo quel continente, aiuterebbe molto di più a capire il perché di certi fenomeni come le migrazioni e a cambiare certi atteggiamenti.
E’ inaccettabile il silenzio su tanti altri contesti di crisi di dimensioni molto preoccupanti, una mancata conoscenza che induce i cittadini a non capire perché così tanta gente continui a fuggire dalle proprie terre rischiando la vita per arrivare da noi. Questo – ha scritto padre Alex Zanotelli – crea la paranoia dell’invasione, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi.
Il racconto delle antiche e radicate povertà del Sud del mondo può tenere viva quella che per secoli è stata una delle stelle polari dell’Occidente e cioè difendere e proteggere la dignità delle persone.E’ una narrazione indispensabile perché quei sentimenti di intolleranza profonda da piccole fiammelle rischiano di divampare in incendi in grado di devastare interi boschi. La conoscenza delle condizioni culturali, geografiche, sociali, in cui, nel mondo, vivono popoli sfruttati porta a riconoscersi nell’altro. Le differenze che creano paura e sconcerto possono essere anche il luogo della ricchezza. Raccontare questi mondi è il compito di un giornalismo che voglia restare legato alla sua piú profonda natura: la narrazione quotidiana della condizione umana.