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Kofi Annan, la semplicità al servizio di un mondo migliore

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Raccontò una volta Enrico Letta che Kofi Annan, in vacanza in Italia, mentre passeggiava tranquillamente, venne visto da un privato cittadino, il quale corse a chiamare la moglie e le chiese di sbrigarsi a venire perché c’era davanti a loro una persona eccezionale. “Corri, corri, c’è Morgan Freeman!” esclamò. Annan, come riferì a Letta narrandogli questo gustoso aneddoto, non solo non se la prese ma, anzi, rimase molto colpito, in positivo, dall’entusiasmo e dall’accoglienza che ricevette, in quella come in tante altre occasioni.
Per questo oggi, nel giorno tragico dei funerali delle vittime di Genova, possiamo dire che un altro lutto, stavolta mondiale, ha sconvolto la nostra quiete agostana: una perdita per l’umanità che al momento facciamo fatica a quantificare.
Kofi Annan, scomparso all’età di ottant’anni, è stato, infatti, il segretario generale delle Nazioni Unite dopo l’egiziano Boutros-Ghali, il primo segretario generale di colore, colui che è stato chiamato a ricoprire questo difficilissimo incarico negli anni delle guerre di Bush e di Blair che hanno destabilizzato il Medio Oriente, mentre scoppiava la Seconda Intifada fra israeliani e palestinesi e Clinton si adoperava invano per rinverdire a Camp David (estate del 2000) gli Accordi di Oslo che sette anni prima, nel ’93, erano valsi il Nobel per la Pace a Rabin e Arafat.
Kofi Annan, premio Nobel per la Pace nel 2001, nell’anno maledetto delle Torri Gemelle e dell’inizio del conflitto in Afghanistan, punto di riferimento per tutti quelli che intendevano e intendono ancora disegnare un orizzonte diverso per il pianeta, esponente di quell’ala pacifista e autenticamente onusiana della governance globale che sempre più è messa in discussione dal trumpismo arrembante, Kofi Annan era e resta un modello alternativo, un simbolo della lotta contro le ingiustizie e le disuguaglianze, il miglior rappresentante di quell’ideale wilsoniano e rooseveltiano che favorì, nel ’45, la nascita dell’ONU e nel ’48 la stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nonché un esempio da seguire anche per quell’ampio segmento di cittadini americani che non si riconosce affatto nella dottrina guerrafondaia dei falchi che albergano tuttora alla Casa Bianca e al Pentagono.

L’eredità di Annan, solo parzialmente raccolta da Ben Ki-Moon, costituisce dunque un patrimonio straordinario di cui far tesoro: un patrimonio da mettere a frutto e rilanciare in una delle stagioni più amare che si ricordino, con un mondo sull’orlo del collasso e un’esplosione delle disuguaglianze che sta minando alla radice il concetto stesso di democrazia.
Ci lascia un gigante, una rockstar delle relazioni internazionali, noto in tutto il mondo e in grado di ridere di se stesso, al contempo ironico e serissimo, il vero erede di Hammarskjöld e l’inauguratore di una nuova era dei rapporti fra i continenti.
Con Kofi Annan abbiamo scoperto, finalmente, il volto migliore dell’Africa, assistito al rilancio del suo protagonismo sulla scena globale e iniziato a fare i conti con una serie di questioni che caratterizzeranno in maniera decisiva il Ventunesimo secolo, a cominciare dallo sviluppo demografico del continente nei prossimi decenni.
Ci lascia un innovatore e un ottimista, intriso di quel positivismo che lo induceva a sperare e a battersi anche nei periodi più drammatici, e tanti ne ha dovuti affrontare nei nove anni in cui è stato al Palazzo di vetro, attorniato da un crescente numero di nemici.
In un celebre film, proprio Morgan Freeman interpreta il ruolo di Mandela: il paragone fra i due, tracciate le debite differenze biografiche, non è per nulla forzato.

P.S. Abbiamo appreso la notizia della scomparsa, a ottantasei anni, di Gaetano Gifuni: un altro pezzo delle istituzioni che furono che ci mancherà profondamente


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