J’accuse. Con Genova è crollato lo Stato privatizzatore

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Sciacalli che ululano accuse populiste. Pecore innocentiste che si autoassolvono. Sulle macerie del ponte Morandi e le tante vittime è crollata anche la già scarsa dignità della politica e il senso dello Stato. La ricerca delle responsabilità, dagli intrecci tra affari e politica, alle ignavie dell’alta burocrazia ministeriale, rasenti l’acquiescenza ai “poteri forti” imprenditoriali, è il fondamentale compito di una stampa libera e autonoma, come di un sistema giudiziario rapido ed indipendente. Saranno mesi ed anni duri, irti di insidie, ma se si vuole evitare del tutto il crollo dello Stato e l’imbarbarimento, fino a forme di violenza sociale, il nostro senso di responsabilità dovrà superare gli steccati delle barriere ideali, politiche e culturali.

 

IL CONTO DISASTROSO DELLE PRIVATIZZAZIONI

Dal 1992 al 2017, in 25 anni, il nostro paese, nonostante le privatizzazioni, è passato da un Debito pubblico che pesava per il 101% sul PIL (1.332 miliardi euro) al 132% (2.323 miliardi di euro a giugno 2018). In cifre assolute quasi il doppio! Il guadagno netto per il Tesoro è stato di soli 168,5 miliardi di euro.

Tanti sono i padri di questo disastro, tutti abbagliati dall’ideologia neocapitalista di “liberare lo Stato” dal controllo e dalla gestione del sistema produttivo industriale, dalle “Reti” (infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni, energie) e dai servizi. Un inno modernista alle liberalizzazioni, viste come salvifiche per il progresso economico, ridurre le tariffe, ampliare la concorrenza, per restare al passo con le nuove sfide della globalizzazione e per ridurre l’esposizione finanziaria del Debito pubblico.

In realtà, si è tornati indietro nel tempo, come fossimo in un “Ritorno al futuro”, ma non per migliorare il presente, bensì per renderlo un incubo.

 

LE PREMESSE

 

Il primo Centrosinistra negli anni Sessanta operò le nazionalizzazioni delle “Reti” e rafforzò la presenza del Pubblico su ampi comparti dell’industria (automobili, trasporti, agroalimentare, chimica, siderurgia, cantieristica, armamenti, ecc.).

Il secondo Centrosinistra ulivista negli anni Novanta si assoggettò alla ricetta della finanza rampante, abbracciando le privatizzazioni in nome di un programma di liberalizzazioni, che avrebbero dovuto offrire maggiore concorrenza sul mercato, abbassare le tariffe e fare da volano ad uno sviluppo economico ed occupazionale, anche in vista dell’ingresso dell’Italia nel club esclusivo dell’Eurozona.

In questo “sforzo titanico” di snaturare le proprie origini, la sinistra fu vezzeggiata dai grandi media, spalleggiata dal mondo confindustriale e con la complicità furbesca del Centrodestra, anche in seguito al grande sconquasso istituzionale di Tangentopoli.

Ecco, in qualche modo l’inchiesta di Mani Pulite accelerò questo processo di trasformazione genetica, abbattendo il vecchio mondo dei partiti e rescindendo, ma solo in parte, i legami di corruzione tra imprenditori, politici e grand-commis dello Stato.

Sulla spinta di questo movimento di pulizia morale, però, destra e sinistra si incanalarono nell’alveo del neo-liberismo, consigliati dai più autorevoli Advisor anglo-americani (tra cui Merrill Lynch, Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley). A resistere a queste sirene restarono però gli altri due grandi “competitori” europei, Francia e Germania. Ma entrambi hanno rispetto all’Italia una classe burocratica formata in Scuole speciali, con uno storico attaccamento al “Senso dello Stato”.

Alla fine del processo di snaturamento, la responsabilità politica è stata certamente bipartisan.

 

LE CIFRE

 

In 25 anni, dunque, l’Italia ha quasi raddoppiato il suo Debito pubblico, scalando vette da capogiro, passando dal 101% sul PIL nel ’92 al 132% a giugno 2018. Un record da paese in via di sviluppo!

Il Centrosinistra a guida del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) fece decollare come uno Shuttle il Debito dal sostenibile 54% sul PIL nel 1980 all’angosciante 101% del ’92, in piena epoca Tangentopoli.

Nell’estate del 1992, pochi mesi dopo la firma del trattato di Maastricht, il finanziere americano di origine ungherese George Soros (aureola di progressista e filantropo), con un attacco speculativo spinse la sterlina inglese e la lira quasi fuori dal “Serpentone monetario europeo”, costringendo la Banca d’Italia ad una forte svalutazione del 7% ed alla vendita di gran parte delle riserve auree.

Nonostante la “cura da cavallo” del governo di Giuliano Amato (il Dottor Sottile, braccio destro di Craxi al governo, presidente dell’Antitrust, maggior consulente in Italia per la Deutsche Bank, due volte primo ministro, fino al febbraio 2014 presidente dell’International advisory board di Unicredit, carica che poi lascerà a Romano Prodi, e oggi giudice della Corte Costituzionale), tra l’altro con il Prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti, nel 1993 il Debito sale a 111,3%, 1.530 miliardi euro (+200 miliardi).

Anche sulla base di studi e consulenze interessate a far prevalere scelte neo-liberiste da parte dei maggiori istituti finanziari internazionali, fu adottata la ricetta delle privatizzazioni ad ogni costo, ufficialmente pubblicizzata a bordo dello Yacht reale inglese Britannia, il 2 giugno 1992.

A gestire questa prima fase di privatizzazione sono stati soprattutto due personaggi, progressisti di cultura economica keynesiana, il capo del governo Amato, appunto, e l’allora Direttore generale del ministero del Tesoro, Mario Draghi, attuale Presidente della BCE: uno dei “Ciampi boys”, che poi gestì tutto il processo di alienazione come responsabile del Comitato per le privatizzazioni, assistito dal vice Vittorio Grilli (poi Ragioniere generale dello Stato, Direttore generale del Tesoro e infine ministro dell’Economia con Monti; oggi presidente della Corporate & Investment Bank per l’area Europa, Medio Oriente e Africa della banca d’affari statunitense JP Morgan).

Va ricordato inoltre che Draghi dal 2002 al 2005 fu membro del vertice mondiale dell’altra banca di affari Goldman Sachs, che lasciò per diventare Governatore di Bankitalia fino al 2011.

Altro paladino delle privatizzazione fu il parlamentare DC “di sinistra” e più volte ministro, Beniamino Andreatta. Autorevole economista politico, ministro degli esteri nel governo Ciampi, nel 1993 firma un accordo con il Commissario alla concorrenza UE, il socialista belga Karel Van Miert (consulente della Goldman Sachs), per dar vita ad un vasto processo di privatizzazioni e liberalizzazioni, oltre alla chiusura dell’IRI entro giugno 2000.

Intanto, con la legge 218 del 30 luglio 1990, detta anche “Legge Amato”, allora ministro del Tesoro nel governo Andreotti, iniziò la privatizzazione del sistema bancario italiano, a partire da quelle che facevano capo all’IRI (Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Credito Italiano). Ma l’intreccio tra politica e mondo degli affari continuò lo stesso con le Fondazioni, che in realtà le controllano.

 

CHI CI HA GUADAGNATO VERAMENTE

 

Alla vigilia di questo processo, lo Stato direttamente o attraverso IRI, EFIM e GEPI occupava il 16% della forza lavoro, controllava l’80% del sistema bancario, tutta la logistica (treni, aerei, autostrade), le TLC, le “Reti” (acqua, elettricità, gas), pezzi importanti della siderurgia e della chimica; ma anche assicurazioni, automobilistica, elettromeccanica, impiantistica, editoria e pubblicità, alimentare, supermercati, alberghi e agenzie di viaggi.

Incalcolabile il costo per i prepensionamenti; la maggioranza dei 600 mila posti di lavoro creati dal 1992 sono stati poi assorbiti nel comparto dei servizi; mentre la grande impresa ha licenziato oltre 1 milione di dipendenti.

Attraverso una “decretazione d’urgenza” per diversi anni i governi succedutisi privatizzarono, alienando i cosiddetti “Gioielli di famiglia”, per incassare alla fine del percorso solo 168,5 miliardi di euro.

Un fallimento sul versante della riduzione del Debito, nel vano tentativo di adeguarsi alle stringenti condizioni di risanamento della finanza pubblica stabilite dal Trattato di Maastricht, dalle direttive della Commissione Europea e dall’arcigna vigilanza della BCE sui bilanci dei paesi dell’Eurozona.

Ma ben 25 anni di “lacrime e sangue” per i contribuenti italiani, massacrati da continue finanziarie d’emergenza, aumenti delle tassazioni centrali e locali, tre riforme punitive del sistema pensionistico e il restringimento del welfare.

Severo e senza appello il giudizio della Corte dei Conti (10 Febbraio 2010) sull’efficacia di questo lungo processo: “Si evidenzia una serie di importanti criticità, che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito”.

La Corte inoltre lamentò che “il recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato, non è dovuto alla ricerca di maggiore efficienza quanto piuttosto all’incremento delle tariffe di energia, autostrade, banche, ben al di sopra dei livelli di altri paesi europei. Aumento al quale non ha fatto seguito alcun progetto di investimento per migliorare i servizi”.

Secondo un’indagine elaborata per la Commissione Bilancio della Camera, a fine 2000, su “La competitività del sistema paese di fronte alle sfide della moneta unica e della globalizzazione dell’economia”, a cura della “R. & S.” (società di Ricerche e Studi di Mediobanca), il vero affare fu fatto dall’imprenditoria privata italiana e straniera, dalla Borsa di Milano e dai “numerosi intermediari di cui si sono avvalsi per perfezionare le cessioni (consulenti, valutatori, collocatori, operatori pubblicitari ecc.), ai quali sono stati erogati compensi pari mediamente al 3% dei controvalori lordi (oltre 5 miliardi di euro di guadagno, n.d.r.!).

La capitalizzazione dei primi 30 titoli in rapporto al PIL è passata dal 7,6% nel 1992 al 52,7% nel giugno 2000 e più della metà della variazione è attribuibile alle azioni smobilizzate dal settore pubblico. Il rendimento dei titoli è stato mediamente elevato e significativamente superiore a quello dei titoli di Stato”.

 

In realtà le privatizzazioni non sono servite a liberalizzare il mercato né ad ammodernare il sistema capitalistico italiano. Si è passati in molti casi dai monopoli pubblici a quelli privati. Si sono trasferiti settori produttivi “sensibili” e strategici (caratteristici per la creatività italiana, la qualità, le competenze professionali riconosciute nel mondo in ricerca e sviluppo) a gruppi imprenditoriali esteri, solo per incrementarne i profitti, come le TLC, l’elettronica di consumo, l’agroalimentare, il bancario. In alcuni casi sono stati trasferiti alle stesse società sia servizi sia le infrastrutture, come nella telefonia e nelle autostrade.

 

QUATTRO CASI EXTRA-VAGANTI

 

Colui che sui media e nella vulgata popolare, spesso propagandata dalla destra e dai suoi opinionisti, viene accusato di “aver svenduto i gioielli di famiglia” ai famelici capitalisti “amici degli amici”, ovvero il professor Romano Prodi (Presidente IRI 1982-‘89 e poi 1993-’94), in realtà ha le minori responsabilità di tanti altri leader politici e grand-commis. Non solo, ma le sue idee di privatizzazioni e liberalizzazioni erano molto diverse da quanto poi si è realizzato. Più favorevole al “modello renano” tedesco, che a quello anglosassone, dove lo Stato alienava tutto. Certo, anche Prodi non è esente da colpe, come Presidente dell’IRI e come capo dei governi “ulivisti”.

 

1985 – Tentativo di vendita della SME alla Buitoni-Perugina di De Benedetti. Viene bloccata dalla cordata Berlusconi-Barilla-Ferrero, fatta mettere su da Craxi. 10 anni dopo verrà smembrata tra varie società: i bocconi più ambiti, come i supermercati GS passano dal Gruppo Benetton/Del Vecchio alla francese Carrefour; la rete Autogrill va al gruppo Benetton, proprietaria anche di Autostrade. I marchi Cirio-Bertolli-De Rica, dopo un passaggio travagliato alle Cooperative bianche, vengono venduti ad altre società italiane e spagnole. Quella della SME così disarticolata fu comunque la privatizzazione a più alta redditività per il Tesoro.

 

1986 – Vendita Alfa Romeo a Fiat. Con l’accordo di vendita all’americana FORD, già in dirittura di arrivo, si sarebbero realizzati 3.300 miliardi di lire, con l’impegno a investirne altri 4.000, ma sindacati e partiti (DC, PSI, PCI) si opposero alla “svendita” agli americani. In nome dell’italianità vinse la FIAT con un’offerta di 1.050 miliardi di lire in 5 rate senza interessi (ne furono sborsati solo 400 tra il ’93 e il ‘98). La FIAT si accaparrò il Biscione di Arese e poi ne chiuse gli stabilimenti storici. L’Alfa divenne un “brand” della FIAT, oggi FCA holding anglo-olandese, con il cuore negli USA, monopolista dell’auto, che ha inglobato anche gli altri marchi storici Lancia, Ferrari, Maserati.

 

1998/2008 – L’odissea di Alitalia è anche l’unica privatizzazione che anziché far guadagnare soldi al Tesoro è costata ai contribuenti 7 miliardi di euro. Ed è anche la “case history” paradigmatica dell’insipienza di programmazione economico-industriale di centrodestra e centrosinistra. In piena deregulation anglo-americana, agli albori del successo commerciale delle compagnie Low Cost, Prodi cercò di fare un accordo paritario con la francese Air France, ma dovette arrendersi ai ricatti di Lega e Forza Italia, che con Bossi e Berlusconi reclamavano la definizione dell’aeroporto di Malpensa come Hub alternativo e concorrenziale a quello storico di Fiumicino. Sfiduciato Prodi, i due brevi governi D’Alema e Amato si arresero alle richieste di Berlusconi e Bossi, concedendo a Malpensa lo status prestigioso di Hub e mandando in fumo l’alleanza con Air France, a favore di una meno impegnativa con l’olandese KLM, che però si sciolse poco dopo con una penale di 250 milioni di euro a nostro favore. E questo sarà l’unico provento che il Tesoro incasserà dalla vicenda Alitalia.

Tra il 2007 e il 2008, quando ritorna al governo Prodi, si infittiscono i rapporti per salvare nuovamente Alitalia dal baratro. Si riprova l’alleanza con Air France, che controlla la KLM, questa volta però da posizioni subordinate, viste le condizioni prefallimentari della nostra compagnia. Insorgono un po’ tutti, dai sindacati a Berlusconi, il quale alla fine la vince inventandosi una “Compagnia di cavalieri coraggiosi” (Colaninno, Passera, i Benetton, Tronchetti Provera, Caltagirone, Carlo Toto dell’AirOne, gli Angelucci delle cliniche private, i Gavio delle Autostrade Milano-Torino), che pagarono le attività solo 300 milioni. Il resto furono tagli di rotte, ritiro degli slot da diversi aeroporti, dismissione di aerei, riduzione di stipendi e numero dei dipendenti. L’Alitalia continuò nel suo declino, passando agli arabi di Etihad, fino al commissariamento dei giorni nostri.

 

Autostrade  Quando viene privatizzata e venduta nel 1999 alla compagine dei Benetton, alla sua guida c’era Giancarlo Elia Valori (fino al 2002), il presidente dell’IRI era Gian Maria Gros-Pietro, poi divenuto presidente di Atlantia, società controllante delle Autostrade; direttore generale dell’IRI, era Pietro Ciucci, poi presidente e amministratore delegato di ANAS, ovvero il controllore della Concessione per Autostrade. Piero Gnudi era il capo del comitato per le privatizzazioni, poi presidente- liquidatore dell’IRI.

 

I NOMI DI RIFERIMENTO, POLITICI E MANAGER

 

Romano Prodi

Enrico Micheli:

Direttore generale IRI e Sottosegretario alla presidenza dei governi Prodi

Giuliano Amato

Carlo Azeglio Ciampi

Beniamino Andreatta

Mario Draghi

Vittorio Grilli

Tommaso Padoa Schioppa

Massimo D’Alema

Silvio Berlusconi

Gianni Letta:

Sottosegretario alla presidenza dei governi Berlusconi e dal 2007 membro dell’advisory board di Goldman Sachs International

Giulio Tremonti

Umberto Bossi

Mario Monti

Fabrizio Saccomanni

Enrico Letta

Matteo Renzi

Pier Carlo Padoan

Giancarlo Elia Valori:

Presidente Autostrade fino al 2002, dal 2009 è Presidente della delegazione italiana della Fondazione Abertis, il cui principale azionista di riferimento è Atlantia-Autostrade.

Gian Maria Gros-Pietro:

Presidente del Consiglio di Amministrazione di Intesa Sanpaolo dal 2016. Dal 1997 al 1999 è stato presidente dell’IRI. Analogo incarico ha ricoperto all’Eni dal 1999 al 2002, con il compito di seguire la liberalizzazione del mercato del gas e l’espansione del gruppo. Dal 2002 al 2010 presidente di Atlantia/ Autostrade.

Pietro Ciucci:

Presidente e amministratore dell’Anas e dello Stretto di Messina, già Responsabile Finanza di Autostrade-IRI, Direttore Generale IRI nel periodo delle privatizzazioni, poi a Fintecna, che liquidò le ultime partecipazioni IRI.

Piero Gnudi:

Dal 1994 consigliere di amministrazione dell’IRI, con l’incarico di sovrintendere alle privatizzazioni nel ‘97, presidente e amministratore delegato dal ‘99 e presidente del comitato dei liquidatori fino al 2002. Presidente del consiglio di amministrazione dell’ENEL dal maggio 2002 all’aprile 2011.  Attualmente ricopre le cariche di Commissario Straordinario ILVA, Presidente CREDITO FONDIARIO (FONSPA BANK), Presidente NOMISMA Società di Studi Economici, Consigliere ASTALDI.


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