Parigi val bene una messa, ma un mercato vale la libertà di espressione? È il tema che pone fragorosamente la conquista sguaiata dell’Est asiatico da parte di Google. Il do ut des per il progetto in questione -Dragonfly- è chiaro: acquisizione di milioni di nuovi utenti in cambio della soggezione alla volontà censoria di Pechino. Non è nuovo l’inglorioso scambio ineguale. La lotta per il predominio nel villaggio globale passa sopra ai diritti delle persone e ai doveri dei padroni della rete. Da tempo Cina, Iran, Turchia e ora pure pezzi di Europa non permettono una tranquilla navigazione in Internet. Meglio, l’accesso è permesso alle condizioni insopportabili dello Stato sovrano, che erige un muro invalicabile. Dunque, i grandi oligarchi dei dati, il nuovo inafferrabile universo digitale non sopportano magari qualche piccola infrazione del copyright e utilizzano i profili privati dei cittadini senza potere, ma soccombono volentieri di fronte ai regimi autoritari. È il capitalismo, bellezza? Neanche. È una sorta di ultracapitalismo, turbo secondo l’efficace definizione di Luciano Gallino. Postdemocrazia. Al liberismo si sostituisce la cultura del confine. Dove il passato far west ritorna. Niente regole, se non la spietatezza del più forte. Aveva proprio ragione Stefano Rodota’ a invocare un vero e proprio aggiornamento dello Stato di diritto nell’era della rete. Insomma. È venuto il momento di ricostruire il movimento per la libertà della rete contro le censure, uscendo dal corpo a corpo tra anarchia delle fake news e repressione. Un movimento vero, finalmente. L’appello dei 1400 dipendenti di Google contro la sindrome cinese può essere una scintilla. Non sarà che si rinnovano la storia e i conflitti degli operai tessili di Manchester descritti da Engels? Il ciclo delle lotte nell’era fordista partì da lì. È un sogno, direbbero i saggi. Ma di troppa saggezza si muore, dispersi nel labirinto degli algoritmi.