Quando ci si rivolge a un luminare per un controllo medico, si sa come si entra ma non si sa mai come si esce. Il prof. Biguet è il più celebre clinico di Parigi, le sue parcelle sono stratosferiche ma non fallisce una diagnosi, un pozzo di scienza e di esperienza. Émile Maugin, l’attore, di reca nel suo studio nel tardo pomeriggio, dopo l’orario ambulatoriale, quando non ci sono altri pazienti in attesa; è un personaggio talmente noto che, se lo vedono per strada si ferma il traffico, la sua faccia campeggia da enormi cartelloni nei boulevard, e i suoi film spopolano nelle sale. Al termine della visita è atteso per la serale al Théâtre du Châtelet, il tempo di truccarsi, di indossare il costume ed entrare in scena.
Nella camera quasi totalmente oscura viene sottoposto a una radiografia toracica minuziosa, a busto nudo, circondato da un silenzio ovattato e vagamente minaccioso. “Riesce a restare immobile in questa posizione per qualche minuto?” Finita la consultazione il medico gli chiede: “Quanti anni ha?” “Cinquantanove”. “Non ci sono lesioni cardiache ma il cuore che avevo davanti era quello di un settantacinquenne”. In altre parole gli sta dicendo che potrà avere ancora speranza di vita a patto di cambiare radicalmente abitudini. “Mi prescrive l’astinenza?” “Non le prescrivo proprio niente. Guardi, questo è il contorno del suo cuore. Questa tasca è il ventricolo sinistro…” Una pera vizza. “L’unica cosa che posso fare – aggiunge staccando il foglietto delle prescrizioni – è evitarle il dolore o il fastidio degli spasmi”. I due si sono ‘riconosciuti’ a pelle, e anche dal leggero accento rimasto nel parlare; entrambi provengono dalla zona delle paludi in Vandea, dove dormivano nelle capanne con i letti semi immersi nell’acqua dei canali; si sono affrancati da una infanzia poverissima ed entrambi sono diventati delle celebrità nel proprio campo. Una stretta di mano rapida, quasi spiccia, per pudore o per ritegno: “Se dovesse aver bisogno, mi chiami in qualsiasi momento”.
Fuori continua a piovere, Maugin, monumentale nella sua mole gigantesca, uscendo dal lussuoso edificio di Boulevard Haussmann si infila col cappotto inzuppato nel primo bistrot, lasciando a bocca aperta gli avventori con la sua inaspettata apparizione. “Un bicchiere di rosso signor Maugin?!” Gli chiede l’oste che, dopo averlo servito, non rimette a posto la bottiglia. A Maugin non rimane neppure tempo di cenare, i primi spettatori staranno già prendendo posto nelle file. “Bevve il terzo bicchiere a occhi chiusi. Poi ne bevve un quarto e solo allora si eresse in tutta la sua altezza, spinse il petto in fuori, gonfiò le guance e tornò ad essere quello che tutti erano abituati a vedere”. In viso “la smorfia feroce e patetica insieme” che mandava il pubblico in visibilio.
Suo padre faceva il bracciante a giornata, alle prime luci dell’alba era già sbronzo, viveva della carità pubblica. “E’ morto nel suo letto?” Aveva domandato Biguet. “Macché, in una pozzanghera, un giorno di gennaio, a pochi metri dal locale dove aveva fatto il pieno”.
Maria, la sua vestiarista, bassa e grassa come una trottola, lo aspetta in camerino e non riesce a star zitta mentre lui si impiastriccia il viso di cerone bianco: “Bell’aspetto che ha! Dove se n’è andato in giro finora?”. Poi al termine dello spettacolo, il consueto tripudio, le uscite di ringraziamento per gli applausi, l’insofferenza per la fila interminabile di spettatori al camerino: “La bottiglia!” Maria, non meno sgarbata di lui, va a prendere la bottiglia del cognac nell’armadio e gliela porge con aria di disapprovazione. Ad attenderlo fuori della porta l’eterno Cadot, sempre a battere cassa. Cadot, con l’aspetto da pretino, è un suo figlio naturale; ha cinque figli, e la moglie Viviane è appena stata ricoverata in ospedale per una operazione alle ovaie. Sua madre, Juliette Cadot “nera e minuta, simile a una povera donnina che affitta le seggiole in chiesa”, l’aveva ospitato in casa quando Maugin non aveva un tetto sotto cui ripararsi e sbarcava il lunario cantando in un caffè concerto. Solo in seguito erano arrivati il successo, la fama, la ricchezza, ed era diventato l’idolo delle folle, conteso a colpi di parcelle milionarie dai produttori cinematografici. Per l’anno in corso lo attendono cinque film da interpretare, e la mattina è costretto ad alzarsi alle sette per essere puntuale sul set; è la fedele Camille a svegliarlo con il caffè quando fuori è ancora buio; riscuotendosi allunga il braccio ma non trova la moglie accanto a lui: “A quel punto sulla sua faccia pallida e gonfia apparve di colpo l’espressione imbronciata e torva”. La sera prima al teatro, senza rendersene conto, aveva scolato una quantità di cognac spropositata. Con Camille è già stato a letto altre volte: “Lavorava in casa loro da non più di tre o quattro giorni, e lui le aveva dato una palpatina così, tanto per provare; lei gli era subito cascata tra le braccia, con le labbra già dischiuse e la lingua fremente. Nel godere aveva gridato «Caro! Oh! Caro… Caro! Oh!…»…” In bagno, nell’armadio dei medicinali, Mougin trova altro cognac. “Camille!” “Signore?” “Vieni a letto”. “Così, ora?” “Così, ora”. Guardandole i muscoli delle natiche guizzare sotto la seta nera, era stato colto da quella smania improvvisa, e sapeva benissimo perché: “Era piuttosto squallido, però lo liberava”.
Aveva scelto un abito blu a doppio petto e una camicia di seta bianca, e una cravatta a pois”. Prima di uscire era passato dalla camera della bambina, in fondo al corridoio, limitandosi a spingere lievemente la porta: “Vide Alice in piedi, vestita di bianco che tirava fuori dal bagnetto Baba. Sembrava ancora più giovane e fresca…” Sua moglie aveva la stessa età della cameriera, ventidue anni. Quando l’aveva conosciuta ne aveva venti, frequentava l’Accademia d’arte drammatica e la sera, a teatro, interpretava una delle dattilografe della terza scena”. Maugin l’aveva notata dopo qualche settimana. “Una sera le aveva appoggiato una mano sul sedere, con delicatezza, senza che lei si sentisse in dovere di arrabbiarsi. L’aveva invitata a cena. “Aspetto un bambino”, aveva detto lei. “E il padre?” “Non lo sa”. L’aveva sposata, l’aveva portata nella grande casa di Avenue George V, dall’arredamento cupo e severo voluto dalla seconda moglie Consuelo, una spagnola ossessionata dal peccato contro cui combatteva come fosse una fiera da ammansire: “A volte quando lui l’aveva appena posseduta e lei non era arrivata a godere, gli diceva: «Ora fammi il peccato».
Maugin si reca sul set per interpretare la scena madre che conclude il film. L’atmosfera è carica di tensione, la sua giovane partner è paralizzata nel confronto diretto con il mostro sacro, e lui la prende da parte: “E’ mai stata alla Foire du Trône?” E’ lì, sotto l’orribile tendone del lunapark, che a diciassette anni aveva fatto il suo debutto; aveva fame, un assoluto bisogno di mangiare e aveva accettato la sfida di lotta libera con Eugène il Turco, un colosso che era riuscito a gettare spalle a terra vincendo la moneta d’argento da cinque franchi in palio; ma i compari del mascalzone l’avevano atteso al varco, massacrandolo di botte e riprendendosi la posta.
Ora sono pronti al nuovo ciak e “Maugin aveva offerto quella mattina una delle più belle prove della sua carriera. Milioni di spettatori ne sarebbero stati conquistati! Per generazioni!” Il grande Maugin! La sua prima moglie, Yvonne Delobel, una signora della scena paragonata a Sarah Bernhard, viziosa, alcolista, più vecchia di lui, si faceva raccontare l’episodio per eccitarsi. Così come voleva sentirsi ripetere quando, da bambino, Émile vendeva la sorella Hortens per 25 centesimi a Nicou e agli altri ragazzi che volevano palparla. Era stata Yvonne a parlargli per prima delle persiane verdi, il sogno di una vita, forse di tutte le vite di ogni individuo umano.
Ma chi è Maugin? Nel corso della narrazione si accenna a un film “con quel tipo che si butta in acqua”, una palese evocazione dell’Atlante di Jean Vigò interpretato da Michel Simon. Ma tramite un’avvertenza in testa alla narrazione Simenon si affretta a dichiarare che benché il protagonista assomigli a molti attori viventi (il romanzo è del ’50) non è nessuno di loro, “né Michel Simon, né W.C. Fields, né Charlie Chaplin, che considero i più grandi attori del nostro tempo”. E ha ragione, perché Maugin è verosimilmente un sublime autoritratto dello stesso scrittore, che si espone senza alcun ritegno, come Fellini nei suoi film, con una sincerità struggente. Appartengono a lui “le persiane verdi” vagheggiate dalla prima moglie Yvonne Delobel; che lui aveva una tale paura di ferire, da rinunciare “a correre dietro alle servette per quanto morisse dalla voglia”. E ancora a lui apparteneva quel malessere, quel sentimento di estraneità che mai l’abbandonava: “A opprimerlo, in casa sua, in tutte le case in cui aveva vissuto, era il silenzio, l’immobilità dell’aria, una sorta di calma inesorabile, che dava l’impressione che il tempo si fosse fermato per sempre”.
Mougin dunque, dopo la visita medica, alla soglia dei suoi 60 anni, decide di abbandonare le scene, di rinunciare al cinema, di ritirarsi nel Midi, a Cap d’Antibes, insieme alla giovane moglie di cui è davvero innamorato, e anche geloso, e alla piccola Baba che ama come fosse sua figlia; al punto di soffrire la costante presenza della bambinaia, “la signora Lampargent, fredda come una virtù teologale”. Ha comprato una casa che sembra una reggia in stile Novecento, e anche una barca su cui andare a pescare con Joseph, e una macchina americana piena di cromature guidata dallo chauffeur, “un certo Arsène, un tipaccio che aveva costantemente l’aria di farsi beffe di lui”. Corteggia a suo modo la propria vecchiaia dorata; senza poter sospettare che è proprio in quell’astratto paradiso tanto agognato che si annida l’ultima insidia.