Agosto tempo di vacanze e tra le mete più ambite degli italiani spicca la Thailandia. Ma in questo luogo da favola un nostro connazionale vive ogni giorno un inferno: Denis Cavatassi, cinquantenne di Tortoreto, cittadina abruzzese, condannato a morte nel Paese asiatico con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del socio d’affari Luciano Butti.
Per salvarlo dalla pena capitale, se la Corte Suprema di Bangkok a cui si sono appellati i suoi difensori dovesse confermare la sentenza dei gradi di giudizio precedenti, serve un’azione forte e rapida.
Come hanno ricordato nei giorni scorsi i familiari di Denis, il fratello Adriano e la sorella Romina, seguiti dall’avvocato Alessandra Ballerini, lanciando un appello al nuovo governo a riprendere le pressioni diplomatiche affinché si ottenga la sua liberazione o, quanto meno, la certezza di un giusto processo.
L’assurda storia di Cavatassi parte nel 2011, quando Butti, con il quale gestiva un ristorante, viene ucciso a Phuket con tre colpi di pistola. Denis viene fermato dopo essersi presentato spontaneamente alla polizia nella speranza di potersi rendere utile alle indagini.
Dopo alcuni interrogatori irrituali, l’italiano viene arrestato per poi essere liberato su cauzione in attesa del giudizio. Durante questo periodo, il cinquantenne abruzzese non abbandona il paese, non fugge, non cerca di sottrarsi alla giustizia thailandese in cui vuole credere.
Ma quest’ultima lo tradisce e dopo essere stato sottoposto a un processo basato su prove inesistenti, viene condannato per omicidio.
Inizia così il suo calvario. Viene rinchiuso in un carcere che l’imprenditore nelle lettere alla sorella e alla moglie, madre della sua bambina di sei anni, definisce medioevale.
In questi anni di prigionia sono stati ignorati i più basilari diritti, come denunciato anche dall’ex presidente della Commissione Diritti Umani Luigi Manconi durante una conferenza stampa lo scorso febbraio in Senato. Manconi, insieme alla Ballerini e ai familiari, evidenziò come il procedimento nei confronti di Cavatassi fosse stato svolto senza alcuna garanzia. Nulla di più lontano da un processo equo, basato sulla testimonianza di un ufficiale della polizia che accusava l’imputato di essere mandante del delitto e due giovani locali quali esecutori solo perché l’imprenditore, a uno di questi, aveva prestato del denaro.
Nonostante il testimone non si sia mai presentato in tribunale è stato considerato credibile perché, sostengonoi giudici, “non avrebbe avuto motivo di avercela con gli accusati” e dunque dichiarare il falso.
Difficile aspettarsi qualcosa di diverso da un regime che dal colpo di stato militare del 2014, che ha interrotto qualsiasi attività politica e democratica, nega il diritto a tornare al voto nonostante le promesse dei generali a ogni anniversario del golpe di elezioni libere per l’anno successivo. Finora non è mai accaduto.
Per sollecitare il nuovo esecutivo, anche il movimento civico Val Vibrata Monti della Laga che segue dall’inizio la vicenda Cavatassi ha scritto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per riaccendere i riflettori sul caso e sollecitare una nuova iniziativa diplomatica.
Ma è soprattutto la caparbia battaglia dei fratelli del 50enne di Tortoreto a guidare la campagna “Libertà per Denis Cavatassi”, che questo post illumina e sostiene. Come annunciato nella loro prima uscita pubblica sei mesi fa, Adriano e Romina chiedono al governo di far ‘pesare’ la convenzione che l’Italia nel 1984 ha sottoscritto con la Thailandia nell’ambito di un accordo di cooperazione ratificato nel 1988. Questa intesa prevede, una volta concluso l’iter giudiziario con una condanna in via definitiva, che un imputato italiano possa avere diritto a scontare la sua pena in Italia.
La speranza di tutti e che non sia necessario arrivare a questo e che sia riconosciuta la piena innocenza di Denis. Ma a oggi nessuna garanzia, né segnali, sono arrivati in tal senso.
Unica nota positiva, in un contesto drammatico, è che dal 2009 in Thailandia vige una moratoria sulle esecuzioni capitali. È dunque probabile che la sentenza venga commutata d’ufficio in ergastolo. Ma anche il carcere a vita in prigioni come quelle thailandesi, per le condizioni di salute del nostro connazionale, equivale a una condanna a morte.