In questi giorni di ossessiva concentrazione mediatica sul top-manager Sergio Marchionne, mentre i quotidiani continuano a dedicare alla sua figura pagine di ricordi, alla scomparsa prematura di Clara Sereni, grande intellettuale, scrittrice e giornalista raffinata, sono stati riservati solo trafiletti di circostanza ed articoli per lo più stereotipati. Così va la vita. E la morte.
Clara Sereni era una donna concreta e sognatrice nello stesso tempo. La vita non è stata generosa con Lei, che invece lo è stata nei confronti degli altri. Le veniva spontaneo; una scelta morale ed esistenziale. Cultura, politica, vita privata e pubblica non conoscevano confini nei suoi orizzonti. Lo scorrere veloce e ironico della sua penna sui fogli bianchi si impregnava dei profumi nobili della sua cucina. Tradizioni familiari, stralci di Storia del Secolo scorso, frammenti di memorie, d’amori e di amicizie transitavano spesso da lì. Quando ancora parlare di padelle, pentole e fornelli non era di moda, non era seduzione del superfluo ed estetica minimale, sostitutiva di una abbondanza sognata per sconfiggere la miseria atavica del piatto vuoto, Lei con quel prezioso libro che ha segnato un’epoca, “Casalinghitudine”, ha sdoganato l’idea di donna custode del focolare domestico, per elevarla a depositaria di tradizioni e di alchimie da trasmettere.
La cucina, da luogo angusto e chiuso di eterni conflitti consumati a tavola, di doveri ripetitivi, diventa radice di una nuova identità femminile in opposizione a una egemonia maschile rappresentata dall’ingombrante e schiacciante presenza paterna. Emilio Sereni era uno studioso e politico illustre che ha segnato il Novecento con il sogno utopico di un marxismo realizzabile, ma con il quale lei entrò inevitabilmente in conflitto. Alla fine, anche al rigoroso genitore “Il Sol dell’Avvenire” sembrò un miraggio irrealizzabile: “molte maglie della sua rete si erano strappate, io fra le tante. Le mie improvvisazioni, la mia fatica a vivere e la sua scientificità, il suo suicidarsi di silenzio, una guerra senza quartiere fino all’ultimo. Lui non ha vinto; io mi limitavo a vivere”. Il giorno del funerale del grande dirigente del PCI, nel marzo del 1977, la figlia annotava: “Osservavo gli effetti cromatici del compromesso storico, niente bandiera rossa sulla bara, niente fiori rossi nei suoi pressi: tricolori, nuances dal rosa al giallo, al violetto, a cominciare dalla corona inviata da Leone, già in odore di impeachment…L’Avversario non era più davanti a me e non avevo più, anagraficamente, radici…”. Era arrivato il Tempo di piantarne di proprie, di cercare la felicità in un figlio. Nasce Tommaso, “una responsabilità così schiacciante che ha bisogno di essere diluita in altre ramificazioni, il mondo tento di tenerlo a bada con piccole invenzioni, strategie di sopravvivenza apparentemente disomogenee per legare a me persone e cose”.
Nella sua produzione letteraria i continui richiami a storie personali intrecciate a quelle collettive disegnano una trama sottile di romanziera attenta alle confluenze di vissuti e valori che superano il soggettivo per farsi universalità e contemporaneità. La presa di coscienza di Clara, precoce quindicenne inquieta e osservatrice che “un’educazione marxista non significa automaticamente libertà. O felicità”, segna l’intuizione anticipatoria di una storica frattura fra la rivolta del ’68 (ancora in embrione) e il più importante Partito Comunista occidentale.
Le presenze femminili sono dominanti in tutti i suoi romanzi. Le sue sorelle sono ripetutamente ritratte: affinità irrisolte, complicità mancate, solitudini diverse. La nonna paterna, Alfonsa, energica, “dai grandi piedi e somigliante a Golda Meir”, segnata sul viso da antichi dolori, che arrivava improvvisamente in aiuto per poi ritornare alla sua vita abituale in Israele. La raffinata zia Ermelinda, sua insegnante di pianoforte e di vita, con le immancabili perle e la spilla di rubini “che votava socialista, ricamava cuscini, profumava di sapone di Marsiglia, decisa a fare di me un genio, la sensazione di qualcuno che chiede molto, ma molto è decisa a dare, il calore di sentirmi prediletta e unica”. E poi il fantasma della madre, Xenia Silberberg, figlia di due rivoluzionari russi, emigrata bambina con la sua mamma in Italia dopo la condanna a morte per impiccagione del padre durante le rivolte del 1905, a San Pietroburgo. La sua implacabile malattia, quando, dopo la fine della guerra, la famiglia sta ricostruendo la normalità. Le cure in URSS e in Svizzera, i Natali di speranza e poi “l’orfanella dai grandi occhi tristi, vestita di piquet a nido d’ape; stanze e corridoi abitati da libri”. Quindi, Il matrimonio del padre con una donna più giovane, la “mammina” che introdusse frammenti di l frivolezza in tanta rigidità. Alle origini della famiglia è dedicato uno dei suoi romanzi più celebri “Il Gioco dei Regni”, una saga familiare che intreccia il mondo russo di sua madre e quello della grande borghesia ebraica di suo padre, passioni e sogni rivoluzionari, destini tragici, magia di due universi che il Destino fa incontrare e suggellare attraverso l’amore di Emilio e Xenia.
La grandezza smisurata degli eventi che fanno da sfondo, nobiltà di vite sacrificate ad un ideale di giustizia che rimase in un eterno sospeso. Tutti romanzi di Clara Sereni oscillano fra evocazione romanzata e stralci autobiografici. Le donne sono sempre protagoniste “perché portatrici di gomitoli di contraddizioni, di emozioni, materia prima di ogni possibile narrazione”. Sconfinamenti continui, ricerca identitaria, pudori e ribellioni. Sono il filo conduttore di una narrazione che usa l’intreccio con la maestria e la lieve profondità di Jane Austen, una delle sue muse ispiratrici. “Via Ripetta” è il racconto della giovinezza alla ricerca dell’indipendenza. Tra speranze, illusioni e disillusioni di una generazione che sognava la “fantasia al potere” e si ritrovò a misurarsi con gli anni di piombo. “Lì ero felice. Il futuro era un cantiere aperto. Molte e grandi cose da fare. Ci si sentiva nel grande fiume della Storia”. Ma poi le malinconie presero il posto delle euforie. Si faceva notte a discutere di politica per poi ritrovarsi il mattino a litigare sui biscotti Restano ferite e rimpianti “per una totalità che non siamo riusciti ad avere, l’effervescenza che ci ha attraversato e poi si è persa”
L’ironia allevia le note drammatiche, le sfumature sono il suo codice alfabetico. “Una Storia Chiusa” è lo sguardo sull’oggi: un Paese immobile che volge lo sguardo all’indietro, verso “Un mondo che non è più roba nostra, non ci riguarda, e finalmente ci guarda anche poco”. “Taccuino di un ultimista” (raccolta di testi scritti fra gli anni ’80 e ’90) la definiscono. “Io sono come gli spicchi di un mosaico: ebrea, donna, figlio e handicap, utopista senza rimpianti con la consapevolezza che si è stranieri fra i propri simili”. Con la rivelazione che c’è sempre una “soglia da attraversare” o da cui ritirarsi. E allora la cultura ebraica delle origini e la laicità non sono antitetiche, come non lo sono la certezza che essere di sinistra, con apertura ad ogni differenza, non annulla l’incubo di un figlio “diverso”, con il quale dividere la quotidianità e le sue difficolta. “I linguaggi si mischiano, la differenza cessa di essere indecente, muri e frontiere si abbattono, le sofferenze degli altri ci riguardano”.
La cura dell’altro, il radicarsi in sé che passa anche attraverso un’identità corporale, che considera l’attitudine alla nutrizione un compito identitario prettamente femminile, si sublima nelle sue pagine in metafora della complessità di ogni donna. I suoi spazi interiori si alternano a quelli fisici delle case da Lei abitate nel corso degli anni, “da modificare in ogni momento, perché se fossero fissi sarebbe come morire; le ricette, una base per costruire ogni volta sapori nuovi, combinazioni diverse. Reinventare, unico sconfinamento possibile, reinventare per non rimasticare, reinventare per non mangiarsi il cuore”. Perché è impossibile una vita solo funzionale, ”senza piccoli gesti di agio, senza un odore di cura, senza una qualche ricchezza. Così le mie radici aeree affondano nei barattoli, nei liquori, nelle piante del terrazzo”.
Ci mancheranno le sue folgorazioni, i suoi silenzi carichi di dolori e tenerezza. Le sue confidenze letterarie che ci hanno fatto volare in mondi non nostri, entrare in contatto con verità nascoste che solo la sua sensibilità riusciva a svelare come fossero un battito di ali. “Perché nella mia vita”, scriveva, “costruita a tessere di mosaico mal tagliate, come quella di tutti e più ancora delle donne, la Casalinghitudine è anche un angolino caldo”. La rivoluzione giovanile del ’68 scorre veloce e dissacrante nelle sue pagine. E’ il tradimento di un’amica che le ruba un fidanzato in nome della libertà sessuale. Il 68 è un ritorno solitario in taxi. Il perdono a seguire “Avevo scoperto la ferocia vendicativa della bontà”. Per lei il ‘68 è una pasta e fagioli consolatoria, annaffiata da buon vino da godere in gruppo. Amori consumati in fretta, lenzuola troppo usate, lasciate alle spalle, per proseguire altrove il proprio percorso. “Per tutti noi il sesso era un progetto nebuloso, modulato sulle note di Scandalo al sole, potevamo permetterci di viverlo senza violenza”. Gli anni ’70 segnano scontri ideologici feroci, analisi critiche del presente e del passato, fra chi tenta una sintesi e chi si arrocca “spigoloso, con un desiderio di moralità astratto quanto dolente”. E’ lo stupore disarmante di una riconciliazione con il padre, sugellata da un pranzo in un ristorante di lusso. Lui così spartano fra le mura domestiche e così a suo agio in quell’ambiente. Clara Sereni non ci ha regalato solo romanzi straordinari, ci ha insegnato il valore profondo della maternità, che non conosce ostacoli, che sa intraprendere sentieri tortuosi. Ci ha insegnato che accendere un fiammifero nel buio della notte è un istante di luminosità.