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Appunti di viaggio: tensioni dal Sudamerica all’Europa. E una tragedia (annunciata?)

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Dall’inverno australe del Cono Sud all’estate boreale europea il salto dal freddo al caldo è lo stesso registrato dai nostri nonni: una trentina di gradi Celsius. Il surriscaldamento globale sembra investire la politica più che la meteorologia e rende incandescenti economie e istituzioni un tempo assai diverse tra loro, tanto di qua quanto di là dell’Atlantico. Al netto delle stagioni: le somiglianze sovrastano le differenze, i problemi le soluzioni. Rispettate quasi ovunque, le forme democratico-repubblicane perdono però la qualità dei corrispondenti contenuti. Creano nelle società fenditure rugginose: nell’esercizio reale dei diritti, nell’equilibrio delle capacità economiche dei cittadini e dell’accesso ai consumi; nell’ampiezza e intensità della partecipazione a un’idea comune del vivere insieme.

In Argentina, l’improvvisa svalutazione del peso, la moneta nazionale, e il ricorso del governo a un mega-prestito (50mila milioni di dollari) del Fondo Monetario Internazionale (FMI) per evitarne un’altra anche maggiore, tiene fin dallo scorso maggio in forte apprensione risparmiatori e banche. Il sistema finanziario nel paese è storicamente asmatico. Fuga di capitali, piccole e medie imprese che annaspano in cerca di credito, l’insostenibile concorrenza delle importazioni a cui il liberismo del governo ha spalancato le porte, la crescente disoccupazione che taglia consumi primari si aggiungono ai problemi strutturali e annebbiano l’orizzonte economico.

Il ristagno industriale e l’erosione della capacità d’acquisto dei redditi fissi non si fermano; neppure l’ascesa del dollaro sul peso (30 pesos = 1 usd). I buoni del Tesoro più diffusi, i Lebac, sono giunti a rendere il 56 per cento, un’enormità, pur di trovare acquirenti. Il rischio-paese ha superato quota 700, la più alta dal 2015, quando Mauricio Macri ha assunto la presidenza della Repubblica. L’attenzione generale è tuttavia catalizzata adesso da due scandali, uno più fragoroso dell’altro: la mancata depenalizzazione dell’aborto, attesa da almeno mezza Argentina e respinta da una ristretta maggioranza trasversale al Senato; l’incriminazione e l’arresto per corruzione di notissimi imprenditori e politici.

Questa seconda vicenda mette sotto accusa la gestione degli appalti per le opere pubbliche dei precedenti governi di Nestor e Cristina Kirchner. Coinvolge però alcune tra le maggiori imprese nazionali e personalmente un cugino carnale del capo dello stato, Mauricio Macri, a lui particolarmente vicino. E’ Angelo Calcaterra, che in pratica lo aveva sostituito nell’amministrazione d’importanti aziende di famiglia quand’egli scelse di mettersi in politica, una decina d’anni fa. Il meccanismo denunciato dagli inquirenti non è nuovo, né in Sudamerica né in Europa (in Italia, vedi “Mani pulite”): in cambio di appalti miliardari (in dollari), gli imprenditori pagavano tangenti milionarie (in dollari).

Ma nella prospettiva elettorale dell’anno prossimo, diventa uno scenario da guerra senza quartiere tra governo e opposizioni per la futura riconquista della Casa Rosada. Da entrambe le parti ci sono inviti alla prudenza così come incitazioni a non fare prigionieri. Non senza seconde intenzioni, colombe e falchi si misurano sull’antico dilemma etico Fiat justitia, pereat mundus. La congiuntura economica in tensione spasmodica e gli scandali che investono l’ex presidente Cristina Kirchner, ora senatrice di un forte gruppo oppositore, senza però lasciare indenni l’attuale capo di stato Maurizio Macri e il suo partito personale (PRO), delineano i fronti di battaglia.

In questa saga multinazionale il capitolo maggiore è stato scritto dalla brasiliana Odebrecht, che opera a livello mondiale. Il suo titolare ha confessato di aver distribuito milioni di dollari a capi di stato e ministri in Sudamerica e altri continenti, in cambio di contratti compiacenti. Ma non all’ex presidente Lula, nondimeno condannato con l’accusa mai confermata da prove documentali di aver ricevuto illecitamente un appartamento da un costruttore in bancarotta, che l’ha poi denunciato. E’ la distinzione (“ontologica”, è stato detto) ravvisata del Partito dei Lavoratori (PT) che l’ha pertanto candidato alle prossime elezioni presidenziali, sebbene sia chiuso in carcere. Il suo clamoroso mantenersi primo in tutti i sondaggi d’opinione è chiamato a testimoniare la legittimità della decisione, ma anche l’afflizione che l’accompagna.

Sentimenti da tempo consumati in Venezuela, dove la crisi provocata da fattori diversi, al centro dei quali resta tuttavia la rielezione forzata di Nicolas Maduro alla massima autorità dello stato, ha portato nei giorni scorsi a un controverso attentato alla sua vita. Le esplosioni nel mezzo di una cerimonia ufficiale ci sono state e una mezza dozzina di feriti leggeri anche: li abbiamo visti tutti in tv e su tutti i media. Non si riesce a capire se a causarli sia stata la congiura di ex militari con la complicità di servizi stranieri (come sostiene Maduro) o un’auto-attentato (come sostiene buona parte dell’opposizione) per giustificare autoritarismo e repressione del governo. Di certo segnalano l’approssimarsi di ulteriori sofferenze per una popolazione stremata.

Non è possibile sbarcare in Europa senza trovarsi subito in mezzo al dramma degli immigrati. La Spagna ne è diventata una prima sponda. A Madrid, le immagini del premier socialista Pedro Sanchez e dell’ospite Angela Merkel che si sono incontrati per discuterne, appaiono in tutti i telegiornali, sui quotidiani on-line e nelle edicole. “Siamo al punto di poter essere criticati perché ricordiamo che gli immigrati sono esseri umani…” ha dichiarato la Cancelliera tedesca. Al confronto, il Sudamerica è il trionfo del melting-pot… E in quest’ottica anche lo storico sovranismo regionalista della Spagna appare discutibile, quando diventa contrapposizione assoluta al centralismo di Madrid.

Ho occasione di parlarne con due ex ambasciatori italiani che vi risiedono, Roberto Toscano e Uberto Vanni D’Aschirafi. Entrambi hanno conosciuto il Sudamerica e vantano una vasta esperienza internazionale. Coincidono nel ritenere inevitabile una soluzione negoziale alla vertenza che oppone l’indipendentismo catalano al governo centrale. Trattare senza lasciarsi scoraggiare dalle differenze, trattare a oltranza. I risultati verranno. Anche segni minimi e indiretti sono considerati utili e significativi. Come il riavvicinamento alle residenze familiari di due ex membri dell’ora disciolta organizzazione clandestina basca ETA, detenuti da anni all’altro capo del paese, in Andalusia. L’aveva avviato il governo Rajoy, lo prosegue e accelera questo di Sanchez.

In ogni discorso galoppa la locuzione populismo, un tempo ritenuta grigia peculiarità sudamericana: dall’Argentina del welfare autoritario di Peron al Venezuela del nazional-fascista Perez Jimenez. La liquidazione dell’industria tradizionale e l’avvento della globalizzazione avviate negli Stati Uniti nell’ultimo quarto del secolo scorso, sono sfociate nella crisi sistemica del 2008 ancora in atto. Il tramonto di una prosperità protrattasi per oltre mezzo secolo, in coincidenza con un’introduzione senza precedenti di nuove tecnologie sostitutive del lavoro umano nei sistemi produttivi, ha esteso all’intero Occidente una precarietà di massa sconosciuta alle ultime generazioni. Alle loro non ingiustificate paure, il populismo di destra ma anche quello di sinistra sembrano aver offerto le risposte più rassicuranti. Ciò stante gli esiti elettorali europei.

E a questo punto, poiché la complessità dei processi in atto rende indispensabile una narrazione che li spieghi, appare con la massima evidenza il ruolo determinante dell’informazione. In Argentina lo scontro per il suo controllo tra i governi Kirchner e l’oligopolio Clarin ha segnato la vicenda politica nazionale. In Inghilterra, alla Goldsmith University di Londra, dove insegna, il politologo Alberto Toscano tratta in un’applaudita conferenza l’attuale congiuntura politica italiana. La incentra sul protagonismo dei populismi del M5S di Grillo, Casaleggio e Di Maio, della Lega di Salvini, dei multimedia di Silvio Berlusconi. Denunciandone le ambiguità con cui pretendono di presentarsi come “difensori dei perdenti” nella crisi in atto.

In sostanza, egli sostiene un punto di vista tutt’altro che isolato: i populismi intervengono sugli effetti invece che sulle cause. (Un equivoco da cui non si terrebbero sempre alla dovuta distanza di sicurezza neppure i partiti socialisti.) Pretendono di spiegare la crisi indicandone -per esempio- tra i principali fattori la concorrenza degli immigrati sul mercato sociale, dal lavoro alle case popolari, agli asili e scuole per i bambini. Un po’ come se i vigili del fuoco volessero spegnere l’incendio d’una raffineria inondandola d’acqua, ma senza interrompere l’afflusso di carburante. Ambiguità che di volta in volta li portano a sbandare sulle opposte estreme, dal movimentismo radicale (vedi TAV) al neo-fascismo (vedi Casa Pound).

Ritrovo dunque in Europa il populismo da molti analisti erroneamente indicato a lungo come una stigmate sudamericana, la sua retorica carica di emotività: rabbia e messianismo. Quando è evidente che il prorompere di questo nuovo populismo (anche negli Stati Uniti) è sospinto dall’innegabile e prolungato mutamento dei modi di produzione. Dalle tumultuose incertezze che genera a livello individuale e di società (cosa sarà di me domani…). Non è inedito. Si manifestò già un centinaio d’anni fa. Anche nei suoi aspetti meno confessabili (l’illusione di scaricarne i costi sui più deboli, in un processo a catena: continenti, paesi, nazionalità, etnie, classi sociali…). Mascherati dal patriottismo nativista e xenofobo che nella cessione di un diritto dietro l’altro divora la qualità del vivere quotidiano di tutti.

P.S. La tragedia di Genova ci ha spezzato a tutti il respiro. Come capacitarsene? E acceso un istante dopo polemiche la cui ampiezza non sembra ancora del tutto dispiegata. Quando lo avrà fatto potrebbe risultare non meno profonda e sorprendente. Da subito, infatti, pur nell’affanno commosso delle prime ore, con il dolore in parte nascosto dalle macerie e da un lutto infinito, ci butta sotto gli occhi la questione dello stato, del suo ruolo nei confronti del privato che negli ultimi decenni lo ha progressivamente desautorizzato per spogliarlo via via di funzioni. Quella della difesa del territorio e della sua organizzazione non tra le ultime. Uno stato certamente non incolpevole, le cui amministrazioni non tutte e non sempre ma troppo spesso inefficienti e non di rado corrotte hanno favorito il trasferimento delle sue prerogative lasciandogli tuttavia immutate responsabilità. Quella del rapporto stato-privati è la questione etica. Che frequentemente elusa, torna crudelmente a riproporsi.


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