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1978: l’anno che cambiò la Chiesa

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1978, l’anno dei tre papi. L’anno di Moro, certo, dei funerali di Stato senza la bara e senza i familiari, dell’attacco al cuore delle istituzioni e del dibattito straziante tra i fautori della trattativa e quelli della linea della fermezza.
1978, un anno con l’8, cruciale come tutti gli anni con l’8 e senz’altro uno spartiacque nella storia repubblicana, avendo segnato, di fatto, la fine della politica in Italia e l’inizio di un buio che dura tuttora.
Il 1978, tuttavia, è stato un anno cruciale anche per la Chiesa, visto che in quei dodici mesi si compì il destino di un’istituzione millenaria che, per la prima volta dal 1523, smise di essere guidata da un italiano. Non convinsero, infatti, né Siri né Benelli e così, terminata la lunga stagione di Paolo VI e la brevissima parentesi di Giovanni Paolo I, fu scelto un pontefice venuto da lontano, da quell’Est Europa ancora caratterizzato dalla Cortina di ferro: un fatto storico, rivoluzionario, assolutamente straordinario per l’epoca.

Oggi farebbe meno effetto, forse nessuno, in questo mondo globale in cui pochi hanno avuto nulla da eccepire per l’elezione di un papà venuto addirittura “dalla fine del mondo”, ma per l’epoca il solo timore di un papa nero, o comunque proveniente dal freddo di oltre Cortina, per molti costituì uno shock.
Quarant’anni dalla scomparsa di papa Montini, colui che indusse Pio XII a recarsi a visitare il quartiere di San Lorenzo subito dopo il bombardamento alleato del 19 luglio ’43, inviso alla curia romana, spedito quasi per punizione in quel di Milano e infine tornato in Vaticano sul soglio di Pietro per completare e arricchire l’opera avviata da papa Roncalli con l’apertura della stagione conciliare.

Un pontefice tessitore, potremmo quasi dire il Moro della Chiesa, e non è un caso che l’anno dell’elezione di Montini, il ’63, sia stato lo stesso dell’arrivo di Moro a Palazzo Chigi, a capo di un esecutivo che segnò la nascita del centrosinistra, con l’ingresso a pieno titolo dei socialisti nella compagine di governo e l’inizio di una delle fasi più positive, dal punto di vista delle riforme e della coesione sociale, che il nostro Paese ricordi.
Del resto, la classe dirigente democristiana del primo trentennio, la generazione dei padri della Repubblica, l’aveva forgiata e allevata lui. Erano i figli di Camaldoli e del meraviglioso Codice che vi venne redatto nell’estate del ’43, i figli del solidarismo e del personalismo cristiano, ispirati da Mounier e Maritain, la classe dirigente fucina di cui il futuro Paolo VI fu il promotore e il nume tutelare.
E non è un caso che, morto Paolo VI e spentosi all’improvviso Luciani, l’Italia sia finita in secondo piano anche nelle gerarchie ecclesiastiche, essendo sorte nuove esigenze ed essendosi fatto il mondo ormai più ampio, troppo ampio, per procedere ancora secondo le liturgie pazienti e manierate di un pastore bresciano la cui fede aveva attraversato ben due guerre mondiali e sfidato a viso aperto la barbarie nazi-fascista.
Quarant’anni dal ’78 della Chiesa, dall’anno che ha cambiato per sempre la nostra società e il nostro modo di essere, sancendo, il 16 ottobre, con l’elezione di Karol Wojtyla, la nostra sostanziale decadenza come Nazione.
Da allora non ci siamo più rialzati, abbiamo perso l’ultimo brandello di potere vero che ci era rimasto e quel po’ di classe dirigente spendibile che le intuizioni di Montini ci avevano lasciato in eredità.
Anche la Chiesa ormai guarda altrove, forse all’Africa, e a noi non resta che ricostruire, sulle macerie di quarant’anni di vuoto e di inutili polemiche.

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