Il Parlamento più ultranaziobalista della storia della Repubblica turca si è insediato oggi in un clima sempre più cupo e carico di tensione, alimentata anche dalle sentenze che continuano ad abbattersi sui intellettuali e giornalisti turchi che hanno la sola ‘colpa’ di non essersi piegati alle logiche di un regime che cerca di mantenere le parvenze di Stato democratico.
Ieri è stato il turno di 6 dei 30 dipendenti del quotidiano Zaman mentre in cinque sono stati assolti. Il processo che si è appena concluso, diviso in due tronconi, è stato enormemente condizionato dalle leggi antiterrorismo entrate in vigore dopo il fallito golpe del luglio 2016.
A carico degli 11 imputati, arrestati dopo il commissariamento del giornale chiuso pochi mesi dopo e in carcere da quasi due anni, non è stata prodotta alcuna prova se non una serie di articoli critici nei confronti delle autorità.
Nonostante l’assoluzione dall’accusa più grave, di “tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale”, la sentenza è stata dura, pene tra i 6 e i 10 anni per terrorismo. Inaccettabile, come denuncia anche Amnesty International in una nota rilevando che “ci troviamo al cospetto della conferma dell’intenzione delle autorità turche di ridurre al silenzio l’informazione libera”.
Iniziato il 18 settembre 2017, 14 mesi dopo l’arresto di 30 tra redattori, editorialisti e collaboratori del quotidiano di cui era editore Fethullah Gülen, considerato l’ideatore del tentativo di colpo di Stato, il primo troncone del processo Zaman si è concluso con la condanna di Ahmet Turan Alkan, Şahin Alpay e Ali Bulaç a otto anni e nove mesi, di Mustafa Ünal e Mümtazer Türköne a 10 anni e sei mesi e di İbrahim Karayeğen a nove anni.
Assolti İhsan Dağı, Lale Sarıibrahimoğlu, Nuriye Ural Akman, Mehmet Özdemir e Orhan Kemal Cengiz.
Un verdetto arrivato alla vigilia della prima seduta dell’assemblea parlamentare che dopo la svolta verso l’islam politico ha visto rafforzarsi il fronte ultanazionalista che ha reso ancora più forte Erdogan, i suoi alleati e il disegno del presidente che mira a rendere la Turchia una grande potenza regionale. Un processo che rischia di aggravare ulteriormente le relazioni già critiche tra Ankara e i paesi occidentali, in particolare Unione europea e Stati Uniti.
La saldatura tra la destra e l’islam potrebbe avere gravi conseguenze sullo stato di diritto in Turchia, in particolare sui diritti umani e sulla tutela delle minoranze, soprattutto i curdi.
Proprio sulla questione curda si sarebbe cementata l’alleanza tra Akp e Mhp, come ha scritto Taha Akyol, editorialista del quotidiano turco “Hurriyet”.
Erdogan, rileva Akyol, ha ottenuto il sostegno dell’Mhp “sia per la sua retorica nazionalista sia per il successo delle operazioni militari ‘Scudo dell’Eufrate’ e ‘Ramo d’ulivo’, condotte dalle Forze armate turche in Siria settentrionale contro le milizie curde Unità di protezione dei popoli (Ypg)”. Con la sua azione contro i curdi in Siria, Erdogan avrebbe dunque guadagnato il sostegno dell’Mhp. La formazione di Bahceli è infatti profondamente xenofoba e ostile alle minoranze etniche e religiose presenti nel Paese. Vicina al gruppo paramilitare turco dei Lupi grigi, l’Mhp condivide con questa organizzazione estremista l’ideologia del panturchismo, la xenofobia, il sentimento antioccidentale e antieuropeo. Già in fase di stallo, il processo di adesione della Turchia all’Ue potrebbe essere ulteriormente ostacolato dall’alleanza tra Akp e Mhp. L’estrema destra è infatti determinante per il mantenimento della maggioranza in parlamento, essenziale a Erdogan per il pieno esercizio del suo mandato nel nuovo sistema presidenziale entrato in vigore con l’inizio di questa legislatura .