A due anni dal fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 in Turchia, quella notte terribile costata la vita a 251 persone è stata celebrata con commemorazioni di stampo nazionalista e un decreto voluto fortemente dal presidente Recep Tayyip Erdogan, che da allora ha lanciato una risposta implacabile con ‘purghe’ dei dipendenti statali e repulisti con arresti in ogni fascia della società civile, compreso il mondo dell’informazione con almeno 160 giornalisti in carcere. Proprio oggi è iniziato il processo a Havva Cuştan e İsminaz Temel, colleghe dell’agenzia ETHA. Straordinario il coraggio della loro testimonianza: “È vero, abbiamo partecipato a tutte le azioni nell’atto d’accusa, ma come giornaliste. La partecipazione a manifestazioni pubbliche rientra nell’ambito della libertà di parola”.
Cuştan e Temel sono in carcere e costrette a difendersi da accuse gravissime perché non si sono piegate al regime che tenta imponendo il bavaglio di controllare l’informazione. Controllo che il Sultano si è assicurato sui militari con un decreto firmato, come atto simbolico, nell’anniversario del giorno in cui una parte dell’esercito tentò di rovesciarlo.
Prima di commemorare ad Ankara e Istanbul le vittime del fallito putsch, Erdogan grazie ai nuovi poteri del presidenzialismo ha emesso un provvedimento che trasferisce lo stato maggiore delle forze armate alla diretta gestione del governo.
Un decreto dal forte valore pratico e simbolico, in un Paese dove per decenni l’eserci si era intestato il compito di difendere anche con le armi l’unità e la laicità dello Stato volute dal padre della patria Mustafa Kemal Ataturk. D’ora in poi, i vertici militari risponderanno direttamente al ministro
della Difesa, alla cui guida Erdogan ha nominato nel suo nuovo esecutivo il generale Hulusi Akar, che fino a una settimana fa era ancora a capo dello stesso Stato maggiore.
Una dimostrazione plastica del controllo sempre più ampio del presidente anche sulle forze armate.
Con il nuovo decreto, sarà lui a convocare il Consiglio militare supremo (Yas), che stabilisce le nomine dei vertici dell’esercito, e il Consiglio di sicurezza nazionale (Mgk), che indica le misure da adottare nella lotta al terrorismo.
Assicurati questi nuovi strumenti nelle sue mani, Erdogan si prepara a sospendere lo stato d’emergenza, un vero status da regime che in due anni ha permesso l’arresto di 160 mila persone e 150 mila epurazioni secondo le stime dell’Onu.
Ma, anche se le misure straordinarie saranno tolte, Ankara ha precisato di essere pronta a
reintrodurle in qualsiasi momento. “Troveremo tutte le cellule” della rete golpista di Fethullah Gülen “e le distruggeremo”, ha assicurato Erdogan durante il suo discorso pubblico ricordando le 2.400 condanne, tra cui più di 1.500 ergastoli, già emesse.
La battaglia della Turchia per sradicare i
‘gulenisti’ dalle istituzioni non è ancora finita, ha ribadito in un crescendo di esaltazione di fronte a decine di migliaia di persone scese in piazza per la “Giornata della democrazia e dell’unità” celebrata sul primo ponte del Bosforo, che collega la sponda europea e asiatica di Istanbul, ribattezzato ‘Ponte dei martiri del 15 luglio 2016.’
Ad Ankara, il presidente turco aveva pranzato propio con le famiglie di chi nella sanguinosa notte di due anni fa perse la vita per opporsi
ai golpisti. Le commemorazioni per i 251 morti e 2 mila feriti erano iniziate con una recita del Corano, in cui la massima autorità islamica turca, Ali Erbas, aveva lodato chi aveva combattuto contro “i traditori pedine di poteri stranieri”.
In tutto il Paese ieri i turchi si sono recati sulle tombe dei ‘martiri’ del golpe e le tv hanno diffuso le immagini più significative della notte fra il 15 e il 16 luglio, come pure l’appello alla resistenza che Erdogan lanciò dallo schermo di uno smartphone.
Eppure nel Paese c’è chi ha manifestato, pagando con l’arresto, perplessità su un tentativo di colpo di Stato destinato a fallire prima ancora che iniziasse.
Non a tutti sfugge che due anni dopo avere vissuto la forma più violenta di contestazione del suo potere, Erdogan, che guida la Turchia dal 2003, è oggi più potente che mai. Rieletto il mese scorso per un nuovo mandato di cinque anni, può contare su poteri considerevolmente rafforzati, in applicazione della controversa riforma costituzionale approvata l’anno scorso. La sconfitta del golpe è stata rielaborata da Erdogan come una “vittoria della democrazia”, nonostante la sua risposta con il pugno duro, con decine di migliaia di arresti e licenziamenti, abbia suscitato la preoccupazione di Paesi Ue e ong.
Nonostante le pressioni internazionali “non ci sarà pausa nella repressione”, ha ribadito Erdogan che continua ad accusare il suo ex alleato Gülen, in autoesilio negli Usa, di essere stato l’ideatore del golpe e non esita a sbattere in galera chiunque abbia avuto, seppur solo supposti, legami con l’imam un tempo l’uomo più potente della Turchia.
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