di Elisabetta Marino
A Corleone, a casa nostra, sappiamo che l’affermazione della nostra identità individuale sarà sempre preceduta dalla fama del paese in cui siamo nati: basta “quel” nome per indurre lo “straniero” a cambiare espressione, alzare il sopracciglio e restituirci un’immagine di noi stessi deformata dal pregiudizio. L’altro sa già sul nostro conto qualcosa di preciso, connotato negativamente, qualcosa che richiede una reazione rapida, chiara, inequivocabile. Così il corleonese sta sempre sulla difensiva e oppone allo sguardo sospettoso del mondo la crosta ormai indurita della sua diffidenza.
Io sono corleonese e, lo confesso, ci sono stati momenti in cui avrei desiderato essere originaria di un paesino dell’entroterra siculo non segnato sulla carta geografica, anonimo, di quelli che non richiedono spiegazioni, distinguo e battaglie estenuanti contro pregiudizi radicati. È impegnativo portare un marchio D.O.C (qui sta per “denominazione di origine corleonese”) e doversi staccare ogni volta dalla fronte un’etichetta che certifica un’appartenenza scomoda.
Quando rifletto sul mio rapporto con Corleone, penso all’ambivalenza dell’odi et amo come sintesi perfetta del sentimento che provo nei confronti del mio paese. Odio Corleone perché ha permesso a un manipolo di delinquenti di consegnarla alla parte sbagliata della storia (cosa resta, se non la scritta ricamata sul gonfalone cittadino, del titolo “animosa civitas” meritato in un passato troppo lontano?). Lo ha permesso perché i pochi mafiosi “corleonesi”, quelli con le virgolette, hanno potuto contare sulla protezione di alcuni e sull’indifferenza di molti. E la mafia è un argomento che non ammette indifferenza, non può concedere il sollievo deresponsabilizzante della neutralità: o si è contro la mafia o si è conniventi. Insomma, di fronte alla mafia, soprattutto a Corleone, si deve prendere posizione.
Anch’io sono stanca di essere parte della narrazione generalizzante che ha trasformato Corleone in un’antonomasia e “corleonese” in sinonimo di mafioso; sono stanca di essere strumentalizzata e di dover “giustificare” la mia appartenenza.
Per chi vive lontano da qui è rassicurante pensare che esista un altrove selvaggio, Corleone, dove tutti sono mafiosi praticanti, credenti non praticanti o spettatori complici. Visione piatta di una realtà complessa che ha al suo interno, come ogni altro posto, tante anime. Bisogna ammettere, però, che l’atteggiamento di chiusura di alcuni corleonesi di fronte alla curiosità del mondo è ambiguo e, anziché giovare alla causa del riscatto, fornisce ulteriore materiale al solito racconto.
Allo “straniero” non si perdona di turbare l’equilibrio su cui si fonda il lento scorrere della vita di paese: ma quant’è fragile un equilibrio basato sulla rimozione? Quello sguardo esterno, benché superficiale e ingiusto, apre una breccia e rivela le contraddizioni insite nell’identità corleonese: silenzio e rimozione, infatti, sono espressione di una subcultura mafiosa, vischiosa, di cui alcuni sono portatori talora inconsapevoli.
C’è un forte sentimento di appartenenza alla comunità che si nutre di un attaccamento viscerale, a tratti commovente alle tradizioni, soprattutto religiose. Ma, se si abbandona il solco rassicurante della tradizione per sconfinare nel campo laico del senso del “bene comune” e del rispetto delle regole, si scopre che la comunità corleonese, al pari di altre realtà, ha al suo interno residui di una subcultura che si sostanzia nella scarsa considerazione di ciò che è pubblico, nella ricerca di scorciatoie, favori, protezione, nella rassegnazione alle storture, nella radicata convinzione che nulla possa cambiare.
Lavorare sulla mentalità è un percorso lungo e faticoso, culturale, che parte dalla quotidianità e richiede la mobilitazione delle forze sane della città (sono tante!), in primo luogo della scuola. E io, da insegnante, sento la responsabilità di formare giovani corleonesi liberi da ogni forma di sudditanza.
Odi et amo avevo scritto. Il mio amore va alla Corleone che rivendica il suo diritto alla normalità, ma non esita a schierarsi: amo i corleonesi onesti, animati da passioni civiche, partigiani di un sistema di valori in netta antitesi con la mafia, basato sulla giustizia sociale, il rispetto della legge, la solidarietà. Chissà quanto tempo sarà necessario e quanta strada dovremo ancora percorrere noi corleonesi, portatori sani e consapevoli delle nostre origini, prima che l’aggettivo “corleonese” sia affrancato dalla connotazione negativa che ha oscurato il suo significato originario; prima che la fama di “cosa nostra” (cosa loro!) oscuri quanto di bello c’è a casa nostra. Intanto ci schieriamo, a viso aperto, contro la mafia perché schierarsi è il primo atto di responsabilità e di amore verso la nostra terra.