Ancora non è stata costituita la commissione parlamentare di vigilanza, visto che mancano diversi nominativi. E visto, soprattutto, che non sembra pronto l’accordo sull’intero mosaico. In tale contesto, si bisbiglia che il partito democratico, virtualmente estromesso dalla gestione della Rai grazie alla legge orchestrata dallo stesso Renzi, otterrebbe il contentino della presidenza della vigilanza. Quest’ultima, a differenza di quanto ha scritto su la Repubblica dello scorso martedì 3 il pur sempre informato Sergio Rizzo, non ha più tra i suoi poteri l’elezione del consiglio di amministrazione che spetta ora alle assemblee di camera e senato. Tuttavia, e qui i dubbi di Rizzo sono fondatissimi, la longa manus berlusconiana non è affatto scontato che intenda recedere. Posto che la Lega (quanta acqua è passata sotto i ponti dal bel progetto dell’allora sottosegretario Marano nel 1994, prefigurante la rottura con Forza Italia) pare occuparsi -per adesso- d’altro, le ultime dichiarazioni di Beppe Grillo e di Luigi Di Maio sulle televisioni vanno lette non nella loro articolazione letterale, bensì nel fondamentale sottotesto: il capitolo della Rai si è aperto nell’agenda pentastellata, a prescindere dai desiderata dei contendenti di vecchio conio.
Se si volesse dare un giudizio sulle parole pronunciate, la diagnosi sarebbe purtroppo semplice. Improvvisazione colpevole. Il proclama dall’Hotel in cui Grillo è uso scendere a Roma sull’assetto del servizio pubblico è un grottesco déjà vu: cessione di due reti ai privati e mantenimento nella sfera di viale Mazzini di un solo canale a spiccata vocazione culturale senza pubblicità. Per chi abbia solo messo il naso nelle vicende dei media italiani è un vecchio ritornello. Privatizzare l’azienda pubblica in tutto o in parte è sempre stato l’obiettivo delle linee liberiste, delle vecchie destre, di qualche sacerdote di rito “blairiano” della sinistra. In particolare, l’aspirazione di cedere al mercato Rai1 e Rai2, passando per la strada di equiparare i tetti di affollamento di spot ai più elevati limiti delle stazioni commerciali, ebbe persino un momento di gloria. Mentre era in discussione presso l’ottava commissione del senato la riforma del sistema (il ddl “maledetto” 1138, affossato) che valorizzava la presenza pubblica, c’era un lavorio dietro le quinte per organizzare cordate di imprenditori disponibili ad inghiottirsi due reti. In verità, allora come in altre omologhe circostanze, il capitalismo italiano mostrò uno dei suoi lati deboli, l’essere inadeguato ad agire nei meandri della società dell’informazione. Dove non erano riusciti Mondadori o Rusconi, dopo la terribile magra della vicenda Telecom, di fronte al flop di Cinecittà Studios, chissà come e con quali salvadanai entrerebbero in scena patron dell’era cognitiva: volenti o nolenti subalterni all’impero del biscione.
Così, le dichiarazioni sul blog 5Stelle del vicepremier Di Maio sulla crisi della televisione tradizionale a vantaggio di Netflix e di ipotetiche versioni italiane della piattaforma che distribuisce in rete film e serie meritano una correzione. I dati tratti da una ricerca di Morgan Stanley parlano di crescita della società nordamericana, fino al 20% del consumo. Mettiamo il caso. Si elude, però, l’amara verità. La vecchie televisione generalista rimarrà prevalente nel pubblico di massa, mentre gli strumenti specializzati coltiveranno nicchie rilevanti, ma di élite. Serie A e serie B. E’ questa la strategia del governo? Uno vale uno, ma non davanti al video?