di Dario Montana
La nostra è stata una famiglia felice fino a quel maledetto 28 luglio del 1985. Una famiglia borghese. Papà era un direttore del Banco di Sicilia, mia madre, casalinga, innamoratissima di papà, e poi c’eravamo noi tre fratelli: Beppe, Gigi e Dario.
Tra mio padre e Beppe c’era un legame speciale. Papà non lo diceva, ma era orgogliosissimo di suo figlio. Il loro rapporto è stato caratterizzato da tanti scontri e tanto amore, come avviene in tante famiglie; dai conflitti generazionali degli anni giovanili si passa ad un confronto sempre più paritario, fatto di complicità, di richieste di consigli, di condivisione di esperienze.
Beppe era un uomo felice, non avrebbe mai accettato dalla vita un mestiere diverso. L’investigazione era la sua passione e la sua professione. Rinunciò a presentarsi agli orali del concorso in magistratura. Ma la gioia per aver superato il concorso in polizia, come accade spesso nella vita, venne sopraffatta dall’esperienza della malattia: un tumore.
Subito dopo l’intervento, Beppe iniziò a frequentare il corso per vice commissario all’Istituto Superiore di Polizia. Fortunatamente a Roma c’era un’accelleratore lineare per la radioterapia che gli permetteva di curarsi in regime di day hospital. I suoi colleghi di corso non sapevano della battaglia che stava combattendo e che avrebbe, innamorato della vita com’era, vinto.
Con i colleghi era sempre e comunque sorridente, così come con i suoi compagni d’ospedale. In particolare si legò a Franco, un ragazzo che non usciva mai dal reparto al quale portava continuamente dei fumetti, la sua passione.
Alla fine del corso Beppe viene inviato a Palermo, nel settembre del 1982, all’indomani della strage di via Carini. Infatti dopo l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo, in un clima caratterizzato dall’ennesima emergenza, come sempre accade in questi casi, lo Stato risponde aumentando gli organici della polizia. Un’occasione irripetibile per Beppe, che dopo aver vinto il concorso, aveva finito il corso presso l’Istituto Superiore di Polizia.
Molti dei funzionari spediti a Palermo all’indomani della strage di via Carini non reggono il peso di quel lavoro; alcuni chiedono di andare via, altri vengono più semplicemente allontanati perché non ritenuti idonei.
Beppe tra le destinazioni di preferenza esclude di tornare nella sua città, Catania, perché secondo lui non è opportuno fare il poliziotto in una città dove si conoscono tante persone che possono chiederti favori imbarazzanti. Meglio andare in una città dove non hai legami.
Chiede di restare alla squadra mobile di Palermo. Un posto da evitare per chi aveva scelto questo mestiere perché non aveva trovato altro da fare. Un posto ambito per chi come Beppe era nato per fare lo sbirro.
La sezione investigativa della squadra mobile di Palermo sarà la sua prima destinazione. Beppe conquista velocemente l’amicizia e la fiducia di Ninni Cassarà, diventando il suo braccio destro.
Tre anni sono stati sufficienti perché Cosa Nostra ritenesse necessario e improcrastinabile il suo omicidio.
La sua vita era molto semplice e piena.
Un boccale di birra e una pizza alla Taverna di Johnny, in compagnia di uno dei suoi collaboratori o con il giovanissimo figlio di Boris Giuliano, Alessandro, che spesso lo andava a trovare nel suo ufficio, dove accanto al crocifisso e alla foto del Presidente della Repubblica faceva bella mostra di sé la foto di suo padre Boris, con i suoi baffoni. Un uomo che aveva saputo profondamente innovare le tecniche di indagine dell’investigativa e che rappresentava per Beppe un altissimo punto di riferimento etico e professionale, anche se non lo aveva potuto conoscere perché la mafia lo aveva ucciso il 21 luglio del 1979: sette colpi di pistola alle spalle mentre pagava un caffè in via Di Blasi.
Per tanti anni sulle pareti della Taverna di Johnny la foto di Beppe, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia è rimasta esposta, ed era veramente strano vedere in quegli anni un locale pubblico di Palermo esporre una foto di sbirri, che oltretutto fu scattata dallo stesso proprietario in occasione del festeggiamento di un’importante operazione di polizia.
A casa Beppe non faceva trapelare alcuna preoccupazione, era sempre sorridente; anche quando mio padre gli confidò di aver ricevuto una telefonata in ufficio, di un parente di Santapaola – il capomafia catanese che ha legami organici con Cosa nostra palermitana – che richiedeva, senza mezzi termini, le sue dimissioni dalla polizia e aggiungeva che all’indomani, per lui, sarebbe stato pronto un nuovo impiego a Catania. Anche in quell’occasione Beppe rispose con il suo sorriso, affermando che non aveva paura, ma che erano i mafiosi a dover avere paura di lui.
A volte Beppe tra un’operazione e l’altra riusciva a fare qualche blitz da Palermo a Catania, per andare a trovare Assia, la sua compagna, e per passare da casa, spesso anche in piena notte perché doveva rientrare al lavoro. Allora mia madre inventava una cena di fortuna, improvvisata all’ultimo momento, fosse anche una semplice spaghettata, il tutto sempre accompagnato dal rimprovero di rito: “Ma non potevi avvertirmi? Non capisco come puoi fare il tutore dell’ordine proprio tu che sei il re del disordine!”.
Ogni volta che Beppe ed Assia suonavano il campanello, in casa si creava un clima di euforia. Mia madre cantava spesso, lavando i piatti. Dopo quel 28 luglio ha smesso di cantare. La notte i miei non si svegliavano più perché c’era Beppe che suonava alla porta, ma solo per piangere e interrogarsi su come era potuta succedere una tragedia così travolgente, che ti cambia la vita per sempre.
(2 – continua)