Finalmente, a quattro anni di distanza, si comincia a fare chiarezza su uno degli episodi più sconcertanti degli ultimi anni della Rai: il licenziamento in tronco dell’avv. Paolo Favale, alto dirigente della Direzione affari legali, con la motivazione di aver redatto un documento interno di critica giuridica contro la paventata cancellazione dall’Albo professionale degli avvocati interni assegnati alla consulenza e non al contenzioso.
L’enormità di questo licenziamento – che colpiva un dirigente cui tutti, indistintamente, riconoscevano integrità, senso di responsabilità e di appartenenza alla Rai – fu accolto con inquietudine e rabbia anche perché sottraeva alla Rai, nel periodo delicatissimo del rinnovo della Concessione e del nuovo Contratto di servizio (2014), il dirigente più esperto di legislazione del servizio pubblico e il più intransigente nel difenderlo da ministri e sottosegretari che tendevano a ridimensionarne la natura e la missione (ripartizione del canone, messa a gara europea della Concessione, prelievo forzoso dal canone di 150 milioni di euro, ecc.)
A fare chiarezza ci ha pensato la Cassazione che, con sentenza depositata il 10 luglio 2018 ha annullato il provvedimento della Corte d’Appello di Roma di licenziamento per giusta causa. In particolare, il Supremo Collegio ha affermato che nel parere espresso dall’Avv. Favale assume “rilievo l’esposizione veritiera e corretta di un fatto nell’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero sia dal punto di vista sostanziale che formale… Tale documento, anche considerando il suo contenuto, … non risulta esorbitare dal diritto di critica legittimante esercitabile dal dipendente nei limiti della continenza e della veridicità dei fatti menzionati”.
La Corte Suprema, riconoscendo all’operato di Paolo un carattere sindacale ha, inoltre, affermato che, indipendentemente dalla qualifica del lavoratore (impiegato, dirigente, giornalista) il rappresentante sindacale, in quanto lavoratore subordinato, si pone in relazione all’attività di sindacalista su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività – espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’Art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro – non può essere subordinata alla volontà di quest’ultimo”. Pertanto “il documento redatto dal Favale … doveva considerarsi legittimo esercizio del diritto di critica nel contesto dell’attività sindacale”.
La parola ritorna ai giudici, ma questa vicenda pone un problema che non è solo di natura giuridica perché tutte le persone in buona fede, interne ed esterne alla Rai, sapevano e lo dicevano – magari troppo sommessamente – che Paolo Favale era vittima di un’ingiustizia. Viene da chiedersi, prima di tutto a noi di Articolo 21: se anche la Suprema Corte riconosce la legittimità del suo operato, non sarebbe opportuna, se non doverosa, un’iniziativa aziendale che, nel riconoscergli la sua irreprensibilità, restituisca al servizio pubblico un professionista che saprebbe come difenderne e valorizzarne le ragioni?