BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

La vendetta arcaica di Martin. “Il sacrificio del cervo sacro”

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L’austerità implacabile dello Stabat Mater di Schubert ci introduce nella crisi, intesa in senso etimologico come fase di instabilità e di rischio, del dottor Steven (Colin Farrell), cardiochirurgo di successo sicuro di sé fino all’arroganza. Marito algido di Anna, oftalmologa dalla mente inquieta che per eccitare Steven simula, nell’intimità, di essere un corpo privo di sensi, di abbacinante bellezza, e padre esigente e premuroso nei confronti dei due figli: Kim (Raffey Cassidy), adolescente appassionata di canto turbata dalle prime pulsioni informi, e il piccolo Bob (Sunny Suljic), dagli occhi troppo consapevoli e tristi e dai capelli troppo lunghi, così lunghi da confliggere con l’immagine canonica di discendente maschio che vive nell’animo di Steven.

Sentiamo, in tutti, attraverso frasi in apparenza banali sotto le quali risuona sempre qualcos’altro – insoddisfazione, ironia, insofferenza, ribellione – e sguardi che eludono, trafiggono o rimangono sospesi in un’interrogazione astratta, un’alternarsi o mescolarsi di contrapposizione e blandizie nei confronti di questa sorta di ‘Squire’ in camice bianco. Nella donna e nei due ragazzi l’atteggiamento verso Steven si divarica costantemente prendendo la via della sfida ctonia o dell’omologazione; un abito nero viene evocato da Anna solo perché conforme ai gusti del marito. E nello stesso tempo è ogni volta Anna a richiamare Steven alla necessità di confrontarsi con responsabilità, nudi fatti, conseguenze e, a un certo punto, con una dimensione irrazionale dell’esistenza.

Dimensione che Lanthimos fa irrompere nello sguardo dello spettatore con una potenza che ne fa il più originale e perturbante regista europeo contemporaneo. Non esistono soggettive o movimenti di macchina scontati, il microcosmo familiare e professionale di Steven viene esaminato da un occhio onnisciente e deformante, capace di costruire prospettive e cromatismi alterati, annidandosi in punti di osservazione preclusi a un organismo umano, di procedere verso i personaggi o ritrarsi da essi, di sostare in posizione frontale o laterale, di scavare dentro lo sguardo ciascuno (e sarebbe deplorevole non citare l’interpretazione sbalorditiva di Nicole Kidman, mai così ricca di sfumature, mai così freddamente disperata; davvero una prova da storia del cinema), di schiacciare gli interni sotto il peso di dinamiche senza scampo, o dilatarli per sottolinearne la natura alienante.

Questa dimensione comincia a produrre crepe irreparabili nel soddisfatto, uniforme fluire dei giorni nel momento in cui il sedicenne Martin fa la sua comparsa sulla scena. Suo padre, paziente di Steven, è morto sotto i ferri sei mesi prima per la colpevole leggerezza del chirurgo, arrivato in sala operatoria ubriaco. Pur non riconoscendo le proprie responsabilità – “non avevo bevuto, è morto di ictus” – avverte la solitudine del ragazzo, il senso di deprivazione che lo abita, la consapevolezza – dolorosa in una persona così giovane – che i segni identitari, di appartenenza, che costruiamo per sentirci simili e vicini agli scomparsi, per mantenere un contatto con loro, sono espedienti consolatori, illusioni destinate a cadere all’apparir del vero, ossia la nostra anonima irrilevanza.

Inizia così un bizzarro rapporto, in cui Steven cerca, con imbarazzo, quasi timidamente, di risarcire Martin della perdita subita. Lo incontra regolarmente, gli fa dei regali costosi, si interessa alla sua vita e ai suoi studi, fino ad invitarlo a casa. Questo mentre l’essenza manipolatoria e misterica, ossessiva, di Martin si fa sempre più evidente. Con un incessante argomentare, metodico e suadente, che ricorda certi personaggi di von Trier, al confine fra metafisica e patologia mentale, il ragazzo si configura come un oracolo incaricato da un’autorità religiosa soprannaturale di risanare l’ordine delle cose, violato dal delitto del medico, per mezzo del sacrificio rituale di uno dei membri della famiglia, che Steven stesso dovrà scegliere.

La storia si sposta gradualmente, mutandosi in grandiosa rappresentazione mitico-antropologica del concetto di ‘capro espiatorio’. I due figli del chirurgo si ammalano all’improvviso, senza spiegazione, senza che i medici riescano a formulare una diagnosi, prima perdono l’uso delle gambe poi smettono di mangiare, aggravandosi velocemente. Secondo le profezie di Martin, quando inizieranno a piangere sangue resteranno loro poche ore di vita e Steven dovrà decidere senza indugio quale familiare uccidere per salvare gli altri.

Martin, entità meta-umana, provoca una crisi interna alla famiglia, simile a una pestilenza biblica, che mina la solidità del nucleo e la sua stessa sopravvivenza per arrivare a una giustizia sommaria e arbitraria legata al principio arcaico della reciprocità violenta, della retribuzione.

Il contagio mimetico annienta ogni legame di solidarietà, la paura animale della morte tende a sopraffare ogni slancio d’amore fra le tre potenziali vittime. Trascinandosi penosamente sul pavimento i due ragazzi cercano con ogni mezzo il favore del Padre per essere risparmiati: Bob tagliandosi i capelli, Kim recitando il monologo di Ifigenia (e a mia volta, sospesa al tuo collo che ora tocco con la mano: ed io t’accoglierò nella mia casa, vecchio, con dolci abbracci e ti ricambierò la fatica d’avermi cresciuta. Io di questo conservo memoria, tu l’hai perduta e vuoi darmi la morte…). Anna incoraggia il marito a uccidere uno dei figli visto che possiamo ancora averne un altro.

Finirà con il gelido orrore di una morte affidata al Fato. Moglie e figli legati e incappucciati, ognuno seduto in una posizione diversa rispetto agli altri due nel salotto di casa, e Steven con un passamontagna nero calato sugli occhi, che gira vorticosamente su se stesso fino a smarrire l’orientamento, imbracciando un fucile. La lieve goffaggine dei movimenti del medico sembra quasi suggerire l’inevitabile inadeguatezza della contemporaneità rispetto al Mito. Il colpo, casuale solo fino a un certo punto, ucciderà il piccolo Bob.

La frenesia mimetica sceglie in genere le proprie vittime in base a caratteristiche psico-biologiche. Il capro espiatorio, il cervo sacrificabile, è quasi sempre l’inerme, il diverso, il più giovane. Magari il possibile futuro corruttore della Norma. La riconciliazione che segue il sacrificio, nelle civiltà arcaiche come nel film, è così improvvisa e perfetta da apparire miracolosa e desolante. Semplicemente un capolavoro.

di Yorgos Lanthimos, Prix du Scénario Cannes 2017, distribuzione Lucky Red


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