Per insegnare a nuotare ai bambini i genitori di una volta passavano alle maniere spicce, li buttavano direttamente in mare dove non toccavano. Pronti naturalmente a ripescarli se non se la cavavano da soli, sebbene in genere non ce ne fosse bisogno. Superato il primo spavento il piccolo cominciava a sbracciare e a scalciare rimanendo a galla, e procedendo sul filo dell’acqua fino a raggiungere eccitato e divertito il collo della madre e o del padre a cui aggrapparsi. Quel volo tra le onde senza salvagente rappresentava anche un’iniziazione, una metafora della vita, nella quale devi imparare a nuotare in fretta e da solo se non vuoi affogare. Era quella la lezione che ci avrebbe accompagnato negli anni aiutandoci nei momenti più difficili a contare sulle nostre risorse senza lasciarci travolgere dai marosi.
Anche allo scrittore Fabio Genovesi, quarantaquattrenne di Forte dei Marmi, è andata così, o se non proprio a lui, al protagonista che porta il suo stesso nome nel romanzo Il mare dove non si tocca (Mondadori pp.318 € 19). Fabio è anche l’io narrante di questa saga familiare che diverte e commuove, dissolvendo presto ogni legittimo pregiudizio nei confronti dei libri in cui a parlare in prima persona è un bambino, con quanto di artificioso e stucchevole questa scelta comporti.
Il nostro protagonista è un ragazzino diverso dai suoi coetanei perché allevato in una famiglia anomala, soggetto d’attenzione costante, gelosa, possessiva da parte di una marea di “nonni” che tali non sono, essendo zii, fratelli maggiori del padre, e tutti col nome che comincia per a, a iniziare dal vero nonno battezzato Aronaldo invece di Ronaldo. Ferocemente scapoli per tenace misoginia, i ‘nonni’ sono comunisti, bestemmiatori, anarchici, cacciatori e pescatori di frodo, fumatori, bevitori instancabili, spregiatori di ogni regola e legge, pronti alla rissa, anche tra di loro, ma allo stesso tempo campioni di una umanità, di una vitalità, di una concezione sacra della vita e dell’universo in cui ognuno vorrebbe ritrovarsi; così indispensabile e genuina a paragone della tediosa, omologata, irreggimentata, esasperante società politicamente corretta che ci soffoca nelle sue spire e che pure ci viene gabellata ogni giorno per il migliore dei mondi possibili. Fabio non è Tom Sawyer di Mark Twain, scopritore di mondi, e neppure l’insolente Giamburrasca da salotto borghese; non è un ribelle, al contrario è un ragionatore, un bambino educato, obbediente, sottomesso, persino rassegnato al suo ruolo di gregario, e malgrado ciò capace con il suo atteggiamento riflessivo di mettere in cortocircuito le forze in contrasto dell’esistenza; la quale è assai più larga e bella e poetica e inafferrabile di ogni schema e di ogni metodo a cui pretendiamo ridurla.
Fabio ama teneramente suo padre, uomo di poche parole ma di grande cuore, che possiede mani d’oro ed è in grado di aggiustare ogni oggetto, ogni guasto; il suo mestiere sarebbe l’idraulico, ma la sua abilità di riparatore non conosce limiti di applicazione e non c’è casa del paese che non abbia avuto bisogno dei suoi servizi. E’ un genio, un Archimede Pitagorico non soltanto agli occhi del suo unico figliolo, e della moglie che aiuta la baracca andando a pulire le case dei benestanti; ma anche della pittoresca tribù distribuita in una borgo rurale ai margini dell’abitato, una sorta di enclave indicata con tanto di cartello scritto a mano: BENVENUTI AL VILLAGGIO MANCINI/ VIETATO ENTRARE. Estroso ossimoro fra i tanti che impareremo a conoscere inoltrandoci nel clan pirotecnico e nell’intreccio narrativo carico di umori e di colori; questi ultimi alquanto sfuggenti essendo i protagonisti uniformemente daltonici.
“E allora non è che io posso scegliere, non posso mica cambiare le regole alla base della famiglia, sennò poi la famiglia crolla e con lei crollano la società e il mondo intero.”
I dieci nonni bestemmiatori di Fabio vengono reclutati da Padre Domenico, il parroco della chiesa di Vittoria Apuana, per costruire il più portentoso presepe della contrada, capace non solo di competere ma di far impallidire il presepe di don Sirio, parroco della chiesa del Centro, che con i tanti soldi delle offerte a disposizione ha ingaggiato una squadra di costruttori da Lucca al seguito del fratello geometra. “Padre – aveva detto lo zio Aldo rispondendo alla chiamata – questo Natale a quelli del Centro gli facciamo un culo che si pentiranno di essere nati”. Nessuno infatti avrebbe potuto rivaleggiare con Giorgio, il papà di Fabio, sotto la cui guida si erano messi a lavorare a schiena bassa, chiassosamente come loro solito, accettando pesanti privazioni, niente sigarette in chiesa e niente bestemmie; ma cibo sì, abbondante, e vino a volontà. L’impegno li travolge di entusiasmo per settimane. Sennonché alla vigilia di Natale, proprio nella Notte Santa, accade un incidente rovinoso che vanifica ogni gioia dello sforzo e avvolge in un nimbo di pece nera il tanto atteso trionfo.
Seguiranno mesi e anni in cui il piccolo Fabio dovrà fare i conti con la vita, crescere in fretta, e non stancarsi, ostinatamente, di credere ai miracoli.
“A me non mi ha convinto mai la sincerità. Non ci vuole nulla a essere sinceri, basta aprire bocca e buttare fuori tutto lo schifo che hai dentro. Apprezzavo molto di più le persone che invece, prima di darmela, questa famosa sincerità me la aggiustavano un pochino. Perché insomma avevo dieci anni ed ero il figlio di Giorgio, che era arrivato sul pianeta Terra con la missione di aggiustare tutto, e invece adesso stava lì fermo su un letto meno vivo dei fiori che gli mettevano sul comodino. E allora quando ti chiedo se c’è speranza che un giorno possa tornare a camminare, o aprire gli occhi per guardarmi, o anche solo la bocca per dirmi che mi vuole bene, se tu dottore sorridi e mi rispondi tranquillo No, ecco, non è che sei uno sincero, sei solo un grandissimo stronzo.”
Inizia così la seconda parte del romanzo introdotta dal verso di una canzone di Roky Ericson: “Se hai i fantasmi, hai tutto”; dove si racconta l’educazione scolastica, umana, sentimentale e a suo modo persino sessuale del protagonista. Quando lo zio Aldo lo porta a pesca di seppie mettendo il pattìno in mare sul far del tramonto, mentre la sera scende e solo le Alpi Apuane rimangono visibili in lontananza nell’ultimo brillio.
“Ha preso una seppia femmina dal secchio, l’ha legata con uno spago e l’ha buttata in mare. L’acqua intorno a noi ha cominciato a ribollire, un nuvolone tremendo di seppie maschio ha circondato la femmina e le saltava addosso senza pietà. Ognuno cercava di agguantare un pezzetto ancora libero, e intanto si picchiavano in un vortice di inchiostro e tentacoli, avvinghiandosi tra maschi e intorno a lei, continuando a stringerla così infoiati che non si accorgevano della forza misteriosa che li portava fuori dall’acqua, e della mano callosa che li scuoteva per staccarli dall’esca e farli cadere in fondo al secchio in un plop.”
A dieci anni il bambino lascia gli accoglienti banchi delle elementari per entrare nell’universo sconosciuto e minaccioso della scuola media: “Invece di una maestra unica mi aspettavano tanti professori che forse sapevano meno di lei, perché ognuno insegnava una materia e basta”.
Dai nuovi compagni Fabio è visto come un disadattato; solitario, emarginato, divora con passione vorace e instancabile ogni genere di manuale che la madre gli compra al mercato, sono il suo viatico per conoscere il mondo. All’oratorio incontra la Coccinella che si chiama Martina, e tramite lei avviene la scoperta dell’universo femminile, sia pure ancora in boccio, l’attrazione del diverso che esercita una forza misteriosa e invincibile: “Le femmine erano diverse da noi, già da subito, e più andavano avanti e più si allontanavano, nelle cose che facevano e dicevano e in come si vestivano e in tutto quanto”.
Torna l’estate: “Ognuno ha i suoi gusti, ma la stagione più bella è l’estate e su questo non ci sono discorsi. E’ così più bella che le altre stagioni girano intorno a lei, e anche se hanno i loro nomi e i loro frutti, nel tuo cuore le pensi in un solo modo: Autunno: oh no, l’estate è finita. Inverno: l’estate è proprio lontana. Primavera: dài che ci siamo quasi, dài dài dài!” La madre vorrebbe iscriverlo al tennis, ma la condizione economica gli concede al massimo il ruolo di raccattapalle. Le altre madri del Country Club America vengono ad assistere alle lezioni dei figli: “Dal vialetto arrivava il rumore dei tacchi che accoltellavano la ghiaia, e una danza di capelli lunghi e morbidi, e una donna vestita molto bene e molto poco, si metteva a sedere vicino al maglione bianco del maestro, e allora il campo da tennis diventava un campo di sterminio”. Le fate flirtano da lontano con l’aitante istruttore, abbronzato, elastico, piacione, e una chiostra di denti candidi da squalo da cui escono allusioni ben preordinate ad incontri fugaci, ravvicinati e rapaci nello spogliatoio.
Durante una gita parrocchiale Fabio scopre dentro di sé la viltà, la cattiveria, il tradimento, e compie una cattiva azione di cui si vergognerà per sempre: “Un nulla scuro come quello che senti sotto i piedi quando stai in mezzo al mare e non tocchi, come quello che trovi dentro a due fette di pancarré vuote”. Eppure contemporaneamente, proprio nelle stesse ore, avviene il miracolo tanto atteso, durante giorni e mesi trascorsi a leggere ad alta voce i suoi manuali accanto al letto del padre:
“Il mio babbo si era risvegliato, e quindi adesso era chiaro che tornava. Non lo sapeva il dottore che le rondini, senza mappe e senza poter leggere i cartelli, volano ogni autunno fino in Africa, poi tornano su precise nel posto dove hanno fatto il nido l’anno prima? Non sapeva che le anguille partono dai fossi dietro casa nostra, attraversano i campi e si buttano dei fiumi e da lì fino in fondo all’oceano, e le figlie appena nate tornano ognuna nel fosso da dov’è partita la mamma? Non sapeva che i cani quando i padroni cattivi li portano a sperdere, tante volte tornano da quei posti lontani fino a casa, anche se non conoscono le strade, anche se a casa trovano una persona così schifosa che nemmeno li aspetta?”
Nel primo giorno di primavera torna il caldo e tornano i colori e tutto quello che c’è di bello nel mondo. E allora torna pure il babbo:
“Perché tanto cosa ne sapeva il dottore, cosa ne sapevamo noi, cosa ne sappiamo tutti quanti dell’universo?”