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Carlo Vanzina, metafora dell’Italia

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Pochi registi hanno saputo raccontare un’epoca e un mondo come Carlo Vanzina, che oggi ci ha detto addio a soli 67 anni, sconfitto da una malattia che, purtroppo, non gli ha lasciato scampo.
Vanzina, romano doc., figlio dell’inarrivabile Steno e fratello di Enrico, nato in una famiglia in cui il cinema è sempre stato tutto e in cui sono entrati alcuni fra i suoi massimi interpreti, non è stato affatto soltanto l’autore di commedie ironiche e spensierate che hanno fatto arricciare il naso ai puristi e divertito milioni di italiani. È stato, al contrario, un intellettuale completo e ricco di umanità, la cui opera costituisce una metafora del nostro Paese negli ultimi trent’anni, con i suoi vizi, il suo degrado morale, la sua decadenza economica e l’ascesa, apparentemente inarrestabile, di una serie di nuovi ricchi in cui la cafonaggine si mescola con l’inadeguatezza al comando e con l’assoluta mancanza di qualsivoglia forma di etica.
Sarebbe, dunque, riduttivo definire Vanzina un mero esponente della commedia all’italiana, anche se lo è stato eccome, in quanto rischieremmo di non cogliere la sua sottile e raffinata critica ai costumi e, soprattutto, ai mal costumi che metteva in scena.

Vanzina ha fustigato ridendo, senza moralismi, senza eccessi retorici, senza fare il predicatore né ergersi sull’altare come, talvolta, hanno fatto alcuni suoi colleghi, finendo in determinati casi col risultare insopportabili. Al tempo stesso, però, non ha mai esaltato questi nuovi ricchi, privi di umanità e di decenza, arraffoni, predoni, all’apparenza innocui e in realtà profondamente malvagi, protagonisti degli ultimi tre decenni e delle loro storture e aberrazioni.
Vanzina ci ha raccontato l’italia che cambia e diventa sempre più volgare, le manie di grandezza dei miserabili che hanno fatto i soldi, le ambizioni smisiurate di chi pensa che la carriera sia l’unica cosa che conta, la fatuità di un certo mondo e l’inconsistenza di chi si lascia abbagliare da queste luci della ribalta tanto effimere quanto deleterie.
Per questo dissenso da chi lo inserisce fra i cantori degli anni Ottanta: non lo è stato; anzi, nei suoi film ho sempre ravvisato un fondo di critica. Certo, quel decennio all’insegna del riflusso, dell’evasione, dello yuppismo, dei paninari e della barbarie culturale che ormai è sotto gli occhi di tutti ha costituito uno spartiacque anche per il cinema, oltre che per la politica, per la televisione e per la società nel suo insieme. Sarebbe ingeneroso, tuttavia, sostenere che Vanzina si sia lasciato travolgere da esso: a differenza di altri, lo ha studiato da vicino e compreso alla perfezione, ma non ne è mai diventato complice.
E ora che non c’è più, con la sua scanzonata, verace e ineguagliabile simpatia, avvertiamo la mancanza di un uomo che per lunghi anni ci ha posto davanti allo specchio, mostrandoci senza infingimenti quanto ci vedessimo grandi e quanto, in verità, fossimo diventati minuscoli.

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